Ricordo orgogliosamente la mia prima interrogazione al liceo. L’insegnante di inglese chiamò alla cattedra me e il mio compagno di banco, e ci bombardò di domande sui paradigmi, che noi ignoravamo del tutto. Rimediammo una figura meschina, ma tornando a posto supponevamo di poter strappare almeno un 6. Lei rifilò 3 a me e 3 a lui, che in totale, in effetti, faceva 6. Non ricordo di aver subito traumi particolari, né venne minata l’autostima che l’ottimo conseguito in terza media avrebbe dovuto garantirmi. Sono altresì sicuro che lei non abbia mai meditato attorno a particolari risvolti della psicologia adolescenziale. Immediatamente però mi fu chiaro che il liceo era diverso dalle medie, che non bastava stare attenti in classe, che bisognava studiare di più; che, insomma, quel 3 valeva proprio 3. Semplicissimo. La stessa semplicità di quando giocammo a calcio contro la squadra più forte della nostra città, e noi, che sotto casa facevamo i fenomeni, ne prendemmo 7. D’un tratto vennero a galla i nostri limiti, e una voglia immediata di riscatto. I voti, come le sconfitte, segnavano una misura, indiscutibile quanto la temperatura di un termometro, e indicavano il vuoto da colmare, lo spazio che dovevamo attraversare se volevamo camminare. La vita iniziava a prendere il suo sapore di partite perse, di contraddizioni irrisolte e di tragedie greche. 



Come si sa, nel giro di qualche anno il mondo è cambiato. Dagli adulti adesso non arrivano più brutti voti. E per i ragazzi non c’è alcuna misura da colmare, alcuna strada da attraversare. Gli scrutini di un liceo somigliano alla tombolata parrocchiale: a nessun bambino si può negare un ambo o un terno, altrimenti ci rimane male e l’anno dopo le mamme lo portano in un’altra parrocchia dove invece tutti vincono una macchinina qualsiasi. Come ha osservato Massimo Recalcati, quando i ragazzi di oggi osservano gli adulti, è come se si guardassero allo specchio, non scorgono alcuna diversità: “se il compito di un genitore è quello di escludere dall’esperienza dei propri figli l’incontro con l’ostacolo, con l’inassimilabile, con l’ingiustizia, se la sua preoccupazione è relativa a come spianare il terreno da ogni sporgenza per evitare l’incontro col reale, l’adulto finirà per allevare un figlio-Narciso che resterà imprigionato in una versione solo speculare del mondo”. Ogni voto sgradito, come ogni insuccesso, viene sentito come un’umiliazione: il mondo, infatti, deve assomigliarmi, e mi piace solo se mi assomiglia, non se mi contraddice. 



Ecco perché l’insegnante che stona nel coro dell’ignoranza buonista azzardandosi a mettere — non dico 1, 2 e 3, che sono cifre ormai assimilabili ai cilici medievali, e neanche 4, altrimenti si passa per sanguinari — un 5, o anche solo 7 a un alunno che ha la media del 9, dovrà rendere conto, oltre che ai genitori del ragazzo che ormai si sono trasformati in sindacalisti dei figli, soprattutto a colleghi, dirigenti e bidelli. Indubbiamente non è solo andata in frantumi la tradizionale alleanza scuola-famiglia, che le vedeva tutto sommato schierate compattamente dalla parte dell’istituzione a sollecitare la responsabilizzazione dei ragazzi: la scuola ormai è ben oltre le famiglie nell’accomodante gioco al ribasso. È come se lo sforzo di un bambino per arrivare alla maniglia fosse avvertito non come una naturale occasione di crescita, ma come un inutile rischio di depressione: perciò le maniglie andranno montate a mezzo metro da terra, perché se l’ometto non va alla montagna, è la montagna che va dall’ometto. Le recenti omelie sull’ignoranza ortografica degli alunni italiani fingono di non sapere che negare l’8 a liceali incapaci di mettere apostrofi, accenti e doppie implica, per un insegnante, convocazioni in presidenza, ludibrio pubblico durante gli scrutini, gogna mediatica sui gruppi WhatsApp delle mamme. 



La verità è che a troppi presidi interessa soprattutto non perdere iscritti (il loro modello educativo è il dottor Tomas di Vieni avanti cretino: “la sua soddisfazione è il nostro miglior premio”), che troppi insegnanti non vogliono rogne e se ne infischiano di sollecitare l’intelligenza degli alunni, che troppe mamme tengono più al voto che al bene del figlio, che troppi adulti sono adolescenti inside. Del resto, perfino con un paio di 4 si può essere ammessi agli Esami di Stato, tanto l’8 di condotta e di Scienze motorie compensa (troppo facile! in queste condizioni anche il ministro Fedeli potrebbe decidersi a fare per la prima volta la maturità!). Invece le insufficienze agli adolescenti fanno bene come le influenze ai bambini: ricordano che errare humanum est e creano anticorpi contro la savianite (se il professore si accorge che mio figlio è ignorante, potrebbe ammazzarsi: legalizziamo l’8 politico; se la finanza si accorge che mio figlio si droga, potrebbe ammazzarsi: legalizziamo le droghe leggere). 

In ogni caso io ho deciso. Visto che il principio di autorità è saltato, che salti fino in fondo. Se un mio alunno prende 5, la colpa è mia che non so motivarlo? Bene, da oggi quando un dirigente scolastico mi chiederà di alzare il voto, gli risponderò che non sono io a non volerlo alzare, ma è lui a non sapermi motivare ad alzare i voti; e se mi dirà che il pargoletto ci rimane male se non prende il voto che vuole, anch’io farò il labbruccio triste se non mi fanno mettere il voto che voglio. Che volete farci? Insegno in Puglia, la regione che l’anno scorso ha messo più 100 e lode che Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Trentino e Friuli messi insieme. I nostri magici registri elettronici, com’è noto, trasformano ogni rospo in principe: qui è Natale tutti giorni, e dal Gargano a lu Salentu, abbiamo lu sule lu mare lu centu. Pazienza se poi i nostri alunni iperlodati non passano i test d’ingresso universitari e bestemmiano contro quegli insegnanti che li hanno fatti sentire geni mentre li tenevano parcheggiati a motore spento. Continuiamo così, dobbiamo vincere anche quest’anno: coi voti alti a chi ci pare, andiamo a comandare!