La scuola interessava al Partito comunista per realizzare l’egemonia gramsciana, mentre la Dc controllava il ministero della Pubblica Istruzione per garantirsi la rendita elettorale. Raramente la politica scolastica ha oltrepassato gli angusti limiti della logica sindacale da una parte e del rigore ragionieristico del risparmio, dall’altra. 



Si sa, l’istruzione è la più grande fabbrica italiana, con i suoi dipendenti che si attestano sempre oltre il milione di addetti e chi ha il compito di governarla (molti si sono succeduti in questa funzione provenienti da culture politiche differenti)  non può non farsi tentare dalla logica strumentale del consenso o del contenimento del bilancio statale. La fallita rivoluzione liberale berlusconiana passò dal tentativo irrealizzato della riforma epocale di Letizia Moratti ai tagli lineari di Mariastella Gelmini. In seguito è arrivata la stagione del centrosinistra e del Pd. Sono stati scritti fiumi di parole sulla Buona Scuola che, come ha detto in più occasioni il suo principale ideatore, ha rappresentato uno degli errori più evidenti del governo dei mille giorni.



II Partito democratico, dopo aver perso la falsa “superiorità morale” che il Pci berlingueriano aveva saputo costruire intorno a sé, non sfugge, come i suoi predecessori, alla logica del consenso quando amministra l’istruzione nazionale. Nel bel mezzo della travaglio della scissione, mentre veniva alla luce il Movimento Democratico e Progressista per mano di Speranza e Rossi, con alle spalle i grandi vecchi D’Alema e Bersani, alcuni esponenti della sinistra del partito incolpavano il segretario Renzi (appena dimessosi) di aver perso il contatto e abbandonato il mondo della scuola. In una raffica di dichiarazioni Boccia, Speranza, Bersani, ma anche il ritornante Emiliano e altri ancora chiedevano di abbandonare la logica della buona scuola, di lasciar perdere il dirigismo, con le riforme che dividono, con le novità. Insomma la parola d’ordine era quella di non perdere il consenso dei professori e dei bidelli. “Tornare tra la gente” significa, per questi politici, fare in modo che l’istruzione sia trattata come sempre e favorire di fatto, con misure a pioggia, il vecchio e tranquillizzante immobilismo, il lasciare tutto come sta, con l’obiettivo almeno di non perdere voti. 



Se poi si passa al fronte maggioritario del Pd, Matteo Renzi — nella lunga relazione introduttiva fatta al Lingotto con cui ha lanciato la sua corsa alla segreteria — dopo la scottatura delle 90mila assunzioni della Buona Scuola che non hanno minimamente lasciato alcun segno di rinnovamento e anzi hanno aumentato il caos, ha saputo solo citare l’alternanza scuola-lavoro come unica vera esperienza innovativa dell’istruzione. 

Anche il ministro dell’Istruzione Valeri Fedeli, nel suo intervento alla kermesse torinese, oltre a ribadire una scontata e nel suo armamentario culturale onnipresente parità di genere, ha chiesto di raddoppiare i fondi per scuola università e ricerca e che tale aggravio non venga conteggiato nel patto di stabilità europeo. Tutto qui? E di quali denari parla il ministro? Dei 50 miliardi annui che lo stato inserisce nel suo bilancio? Diventerebbero 100, come in una favola. Oppure del raddoppio dei finanziamenti aggiuntivi previsti dalla buona scuola? Un dato sembra certo. A Torino, riguardo alle politiche scolastiche, sono stati lanciati troppi slogan, con un risultato molto scarso per una convention che si è data il compito di disegnare il futuro dei prossimi 10 anni.

La sinistra italiana, quando si occupa di scuola, sembra dunque attanagliata tra il conservatorismo di stampo neomarxista e il sogno della continua riforma di impianto statalista che va a gravare sempre sulle finanze statali e quindi sul debito. Dov’è finito il primo Renzi, quello che in camicia bianca parlava di scuola come valore e come fattore di crescita?