Ci sono notizie che ci lasciano non solo sgomenti ma anche addolorati, feriti. Le vicende di cronaca che narrano di episodi di bullismo — l’ultimo è quello di Vigevano — finiscono con il sommarsi agli articoli che ci rivelano un universo giovanile che ha disimparato a scrivere, vive di sms e non sa nemmeno cosa significhi redigere cinque righe in italiano compiuto. Certamente non bisogna generalizzare né dubitare circa la presenza, in ciascuno di questi ragazzi e di queste ragazze, di qualità e virtù che possono emergere successivamente, magari una volta sollecitati da un incontro importante con qualcuno che giudichino degno della loro fiducia. 



Ma ciò non toglie nulla ai danni che, nel frattempo, fanno a loro stessi ed agli altri. Così come non toglie nulla agli anni persi ed ai libri non letti, o sfogliati con preoccupante superficialità. Resteranno i danni fatti, le occasioni perse, gli affetti lasciati andar via, annegati in uno stagno di incertezze, dubbi e indifferenza. Dietro la loro superficialità è infatti la loro stessa giovinezza che sfiorisce nella noia, scadendo nel banale, poi nel triviale e infine nell’uso dei più deboli per il proprio divertimento. 



È stato fatto osservare come, almeno nel caso dei ragazzi di Vigevano, si sia trattato di persone provenienti da ambienti del tutto inseriti e economicamente non sfavoriti. Esattamente come per il caso di bullismo verso una bambina di sette anni (sette!) da parte dei suoi coetanei, verificatosi due mesi fa in una prestigiosa scuola di Milano, anche in questo caso non si può invocare l’attenuante della marginalità economica e sociale. Incapacità relazionale, superficialità e ignoranza non sono affatto un prodotto delle periferie ma si aprono una breccia all’interno delle stesse aree privilegiate; tra i figli di chi, verosimilmente, ha avuto la possibilità di donar loro tutti, o quasi, i gadget che presidiano l’universo del consumo giovanile. 



Ciò provoca in qualsiasi educatore un serio e profondo smarrimento. Se non altro perché questi ragazzi non vengono da Marte ma dalla società che noi abbiamo costruito, dalla didattica che noi abbiamo approvato e dai sistemi educativi che noi abbiamo entusiasticamente adottato in casa nostra. Loro sono il nostro risultato, ci piaccia o no.

Ma non basta; fermarsi qui sarebbe riduttivo e ingeneroso. A nostra discolpa possiamo dire di essere dinanzi a generazioni sempre più lontane da quello che è stato il nostro contesto. Ed è proprio nel confronto tra contesti che scopriamo delle differenze radicali.

Siamo stati i figli di una generazione i cui uomini e donne hanno conosciuto la tragedia della guerra e quella della miseria; siamo stati eredi della loro fatica e della loro lotta nel recupero della dignità. Abbiamo fatto esperienza dell’abitare in un decoro semplice, ma difeso con vigore; fatto di una casa pulita, di vestiti dismessi, ma recuperati e tutti impeccabilmente ben tenuti. Ricordiamo ancora l’orgoglio dei nostri famigliari all’arrivo del primo frigorifero e della prima televisione: segnali di un benessere modesto ma oramai indiscutibilmente raggiunto. 

Non abbiamo mai ricevuto una vera educazione, nel senso di un’adeguata trasmissione di regole e principi. Chi è venuto da ambienti popolari si è sempre imbattuto in un’incapacità da parte dei propri genitori nel formulare e nell’argomentare regole e convenzioni in modo adeguato. Tuttavia, di fatto, finivamo per inciampare in queste prima ancora che ci venissero presentate. Gli ordini c’erano già, erano evidenti come i semafori rossi o le sedie da riporre sotto il tavolo dopo la cena: li respiravamo in famiglia, attraverso il rigore dei nostri padri, dei nostri fratelli e delle nostre sorelle maggiori. Lo stesso accadeva per i nostri insegnanti. Non sempre erano dotati di grande capacità didattica, ma avevano il vantaggio di vederci entrare in aula già intenzionati ad apprendere, coscienti di godere di una conquista che i nostri genitori, al loro tempo, non avevano avuto. 

Non eravamo affatto migliori dei ragazzi di oggi, sapevamo fare stupidaggini emerite. Siamo stati anche noi ribaldi e arroganti, idioti e balordi. Ma sapevamo tuttavia che con quella dignità che si respirava in casa avremmo dovuto, prima o poi, fare i conti. Avremmo dovuto incrociare la faccia di nostro padre, il volto di nostra madre dinanzi ad un’eventuale bocciatura. Così, si finiva con lo studiare tutti da matti, cercando di apprendere in tre mesi ciò che la nostra superficiale noncuranza ci aveva fatto trascurare in un anno intero. Chi non voleva o non ce la faceva, lasciava la scuola per andare al lavoro. Ma avrebbe ricompensato con quello i propri genitori, restituendo con lo stipendio in famiglia ciò che non era riuscito ad assicurare con il latino e la matematica, recuperando anche lui fierezza e dignità.

In pratica abbiamo avuto la fortuna di essere formati in una vera e propria “società educante”: la famiglia, la parrocchia, l’associazione erano altrettante comunità strutturate da un preciso clima morale. Un clima che potevamo anche contestare (come del resto abbiamo finito con il fare) ma del quale dovevamo tenere conto.

L’emergenza educativa pertanto non è solo la risultante di una scuola che ha sbagliato metodi e programmi, trascurando metodologie tradizionali che avevano comunque dato ottimi risultati e che, proprio per questo, vanno rapidamente recuperate. Accanto ad errori di programmi e di metodo una tale emergenza è anche il risultato di una società scomparsa, dove non ci sono più quei padri con i quali confrontarsi, quelle dignità familiari da rispettare, quell’universo di benessere da custodire. 

È alla scomparsa di una tale società, alla crescente inconsistenza morale di quella con la quale l’abbiamo sostituita, che dobbiamo ascrivere ragazzi e ragazze sempre più curvi sul loro smartphone, sempre più disincantati verso un futuro che non sembra promettere nulla di buono, sempre più tesi a giocarsi tutto nel presente, come se dal domani non ci si dovesse attendere nulla. Un presente nel quale l’importante è euforizzarsi in qualunque modo: anche a costo di rischiare di fare del male e di farsi del male.

Così il compito fondamentale è riportare questi ragazzi e queste ragazze alla storia, quella di un’eredità da ricevere, ma anche quella di un futuro da costruire. 

Tuttavia, qualunque sia la strada che si percorra ed i metodi ai quali si scelga di fare ricorso, una premessa appare comunque ineludibile: non si chieda a questi ragazzi ed a queste ragazze di occupare il loro posto in aula se noi, per primi, non recuperiamo il nostro. Adulti che timbrano cartellini di un lavoro che non fanno, esperti nell’apparenza e nel raggiro, eterni insoddisfatti del presente a partire da una maturità e da un equilibrio mai realmente posseduti, disincantati di ogni sorta non possono essere maestri di nessuno. L’emergenza educativa riguarda anche noi.