Ormai le sentenze a favore del diritto di un alunno e della sua famiglia di andare a scuola con il pasto casalingo e non fruire del pasto standard stanno diventando innumerevoli. Con l’ultimo pronunciamento della corte d’appello di Torino (settembre 2016) contro le proteste del Miur per la deroga dalla mensa collettiva uguale per tutti, stabilita giudizialmente a giugno, sembra di essere su una strada senza ritorno.
Senza ritorno per i dogmi fasulli del collettivismo scolastico. Evidentemente l’apparato giudiziario non ha ancora imparato i sofismi con cui negli ambienti sindacali e ministeriali si sostiene il tempo pieno. Per la sinistra comunista il tempo pieno doveva diventare obbligatorio ed uguale per tutti già negli anni Ottanta, ma la società italiana ha sempre resistito al monolitismo. Prima fu la Dc che si oppose al disegno educativo globale degli intellettuali organici, lasciando ai genitori qualche margine di scelta sul tempo e la forma della scuola. Ma alla spinta culturale comunista si aggiunse ben presto la consapevolezza del meridionalismo, che si accorse di come la generalizzazione del tempo pieno apriva innumerevoli possibilità di impiego per la salvifica graduatoria nazionale.
C’era e c’è un però. Il tempo pieno richiede la mensa e la mensa costa. Per quanto i comuni versino enormi quantità di denaro per calmierare il costo del buono pasto, la dura realtà di un costo reale intorno ai 5 euro a pasto rimane. E allora si opera sulle fasce di reddito dei genitori, ma anche la fascia più disagiata deve pagare qualcosa: un euro e mezzo o due a pasto, che in un anno vogliono dire 400 euro circa. E poi ci sono quelli che non pagano e così il rompicapo dell’amministratore comunale addetto alla scuola è che di tutto deve occuparsi anziché di scuola. Deve occuparsi di assistenza alimentare, di recupero crediti, di dietismo europeo e mondiale. Ma di educazione, di giovani, di famiglie e di cittadini niente. Mai.
Se guardiamo il cosiddetto piano del diritto allo studio stilato da ogni comune, attualmente vediamo che la spesa maggiore è proprio quella relativa alla mensa. Mentre scrivo ho davanti agli occhi un esempio relativo ad un comune dell’hinterland milanese dove circa la metà dell’intera spesa annuale del comune si riversa sul calmieraggio dei buoni pasto.
Ma poveri noi, non abbiamo capito quanto sia importante il pranzo in comune e uguale per tutti!
Importante per insegnare che cosa? Che passata la soglia scolastica tutto ciò che era vero all’interno, al di fuori scompare. Fuori ci sono le famiglie, le persone, le storie singole, le esigenze personali. Dentro c’è l’uniformità, l’azzeramento delle differenze, la lotta contro lo spirito individualista.
Sono interessanti le motivazioni della sentenza n. 1049/2016 della Corte d’appello di Torino che nega l’obbligo del “pasto comunitario”. Secondo il Tribunale, infatti:
Non vi è un obbligo di avvalersi del servizio di refezione scolastica, trattandosi di servizio a domanda individuale;
Ciascun genitore può scegliere di non usufruirne optando, alle scuole elementari, per il “modulo” anziché per il “tempo pieno” ovvero, nel caso di scelta del tempo pieno, prelevando il figlio da scuola (o facendolo prelevare da persona autorizzata) durante l’orario della mensa e riaccompagnandolo (o facendolo riaccompagnare da persona autorizzata) prima della ripresa delle lezioni pomeridiane ed, alle scuole medie, facendo uscire il figlio durante l’orario dedicato alla mensa e facendolo rientrare dopo il pasto;
Non vi è, quindi, violazione del principio costituzionale della gratuità dell’istruzione inferiore di cui all’art. 34, secondo comma, Cost., potendo i costi della refezione scolastica essere evitati non usufruendo del servizio;
Non vi è nemmeno violazione dell’art. 35 Cost. poiché la tutela del lavoro non contempla il riconoscimento di un diritto soggettivo del lavoratore ad un “tempo scuola” per i figli corrispondente o rapportato all’orario lavorativo;
Non vi è violazione dei principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà sociale di cui all’art. 3 Cost. non essendo ravvisabile una disparità di trattamento tra alunni che pranzano a scuola e alunni che non vi trascorrono l’orario della mensa avendo i genitori scelto di non usufruire del relativo servizio;
Le fasce reddituali più svantaggiate usufruiscono della ristorazione scolastica in base a tariffe agevolate o ridotte ovvero sono esonerate dal loro pagamento se in condizioni di disagio socio-economico, per cui la diversità di situazioni in cui vengono a trovarsi gli alunni che non si fermano nell’orario della mensa a scuola è il frutto di una libera scelta individuale e non di condizioni economiche disagiate;
Essa si determinerebbe anche tra alunni che consumano nei locali mensa il pranzo portato da casa e che consumano il pasto fornito dal servizio di refezione scolastica e non integra una discriminazione tutelabile ai sensi dell’art. 3 Cost. come non la integrerebbe la diversità di situazioni tra alunni che frequentano il “tempo pieno” e alunni che frequentano il “modulo”, posto che il permanere a scuola nell’orario della mensa a prescindere dalla fruizione del relativo servizio non costituisce di per sé bene giuridico protetto dall’ordinamento.
Ognuna delle frasi suddette è un colpo tremendo al dogmatismo tempopienista. Che però non demorde. Pochissime sono le scuole che si preparano il prossimo anno a lasciare ai genitori il margine di manovra sul pasto. Non conosco nemmeno realtà che abbiano fatto qualche presondaggio.
Eppure una linea in grado di garantire personalismo e collettivismo assieme alla finanza pubblica ci sarebbe ed è semplice: la scuola potrebbe erogare solo il primo piatto e lasciare ai genitori che lo desiderano lo spazio e l’incombenza di eventuali secondo, contorno e frutta. Sarebbe salva la contestualità del pasto ed anche sicuro l’abbassamento della spesa, sia per i genitori che per il comune. Ogni controversia sul cibo cesserebbe quasi magicamente perché si sa che proprio il primo piatto è quello più gradito ai bambini ed ai ragazzini e che gli avanzi ed i rifiuti riguardano massicciamente secondi, contorni e frutta.
Qualcuno ascolterà il buon senso?