L’influenza che l’ambiente esercita sugli individui è da sempre oggetto di studio e di attenzione da parte di studiosi di discipline diverse. Nel corso del tempo si è oscillato spesso tra due posizioni contrapposte: quelle di chi riteneva l’ambiente una variabile ininfluente e quelle che invece presentavano una posizione deterministica. 



Negli ultimi decenni si sono venute invece precisando posizioni molto più articolate, le quali ritengono che il ruolo dell’ambiente non possa essere negato ma che l’influenza che esso esercita sull’individuo e sui gruppi sociali possa essere oggetto di modifica e quindi di interventi attivi. 

In particolare nel campo della medicina si è giunti a considerare che il contesto sociale nel quale si sviluppa la storia degli individui possa non solo influenzare molti processi biologici ma addirittura essere trasmesso da una generazione all’altra. In proposito, un articolo apparso nel 2014 sulla rivista Science (a cura di Emily Underwood) sintetizza alcune ricerche attraverso le quali sono stati raccolti dati probanti sul fatto che le differenze in termini di salute osservate nelle varie classi sociali sarebbero dovute non soltanto ai fattori noti da tempo in campo medico, quali le malattie, il fumo, le diete sbilanciate, la droga, ma anche alla posizione che l’individuo ricopre nel campo del lavoro e nella società. In particolare, uno studio condotto nel centro di Londra dall’epidemiologo Michael Marmot ha evidenziato come i lavoratori di basso livello muoiano per malattie di cuore, diabete, malattie polmonari molto più frequentemente dei loro capi. 



Secondo il professor Marmot per migliorare la salute non è però sufficiente il solo denaro. La più elevata mortalità riscontrata nei lavoratori di livello inferiore sarebbe legata principalmente all’elevato tasso di stress dovuto alla posizione inferiore nella scala sociale.

Anche se le affermazioni di Marmot sono state contestate da altri ricercatori, gli studi condotti su animali hanno dimostrato come “lo stress possa entrare sotto la pelle” e come i maschi dominanti godano di una salute migliore rispetto ai maschi dominati. 

Altri studi condotti dai ricercatori americani Kawachi e Subramian mettono in luce l’influenza sulla salute svolta dalla coesione sociale, dai rapporti di fiducia reciproca tra individui, dal sostegno fornito da altre persone. 



Due aspetti di queste ricerche interessano da vicino chi lavora nella scuola: da un lato l’importanza della salute di cui i bambini godono alla nascita e nei primi nove mesi di vita; dall’altra il ruolo svolto dall’istruzione. 

Sul primo aspetto si sono indirizzate molte politiche sociali e sanitarie e si è pronunciata la stessa Unione Europea. Anche nel nostro paese si è ad esempio avviata una sperimentazione riguardante gli “otto determinanti della salute del bambino da 0 a 2 anni”, anche se siamo comunque ancora lontani dal poter assicurare indistintamente a tutti “un buon inizio della vita”. 

Il secondo aspetto coinvolge da vicino il sistema scolastico e dovrebbe diventare oggetto di formazione e riflessione per tutti gli operatori della scuola. 

Viene richiesta infatti una nuova consapevolezza: l’apprendimento scolastico non incide soltanto sulle capacità cognitive degli individui; incide direttamente sul loro stato di salute. 

La definizione di salute formulata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, non si limita più a prospettare la pura e semplice assenza di malattia ma l’esistenza di uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale. Si tratta di una definizione sottoposta a numerose critiche, soprattutto perché ritenuta utopica, ma che comunque ha il merito di evidenziare le relazioni reciproche tra dimensione biologica, dimensione psicologica e dimensione sociale.

Il benessere mentale, in particolare, non può prescindere dalla considerazione di quelle che Vygotskij definiva “funzioni psichiche superiori”. Funzioni che si sviluppano soprattutto grazie all’apprendimento della lingua scritta, la quale, come ci ha rammentato anche Foucault, si presenta come “tecnologia del sé” e quindi permette “di realizzare una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità”. Obiettivi senza dubbio largamente utopici per il sistema scolastico, tranne per l’aspetto che riguarda la trasformazione di se stessi. 

Apprendere la lingua scritta significa infatti diventare diversi rispetto alla condizione di analfabetismo e significa cambiare profondamente anche la propria modalità di esprimersi oralmente. 

Nel mondo di oggi la competenza nella lingua scritta permette di “funzionare” nel modo migliore possibile, cioè di agire all’interno del proprio ambiente e del proprio contesto mantenendo in equilibrio l’ambiente interno all’individuo e l’ambiente esterno e facendo quindi esperienza del piacere, del benessere, di relazioni soddisfacenti e di attività produttive.

La scuola, perciò, non incide sullo stato di salute uscendo dalla propria specificità, ma al contrario, intervenendo sulla propria organizzazione, sul curriculum e sulla pratica pedagogica.

La stessa accentuazione sull’importanza di costruire individui “competenti” non può voler dire che la scuola si pone obiettivi al di fuori della propria portata.

E’ costruendo davvero individui in possesso di competenze scolastiche (senza dare a questo termine il consueto significato riduttivo) che la scuola opera davvero nel senso di consentire a tutti l’uguaglianza delle opportunità, liberando, per dirla con T. Marshall, “dalla costrizione e dal ricatto dell’ignoranza” e abilitando i diritti sociali e politici. 

E’ significativo che questo ruolo venga riconosciuto alla scuola in particolare dagli approcci fondati sulla giustizia sociale (principalmente dal capability approach di Amartya Sen e Martha Nussbaum), ma è curioso che proprio nel momento in cui viene riconosciuto alla scuola un ruolo fondamentale nella riduzione delle disuguaglianze sociali ed economiche, essa abbia quasi completamente perso il ruolo di ascensore sociale. 

Forse, al di là degli slogan e dell’adesione alle mode pedagogiche, è venuto il momento di chiedersi se la scuola riesce davvero a far raggiungere agli allievi il livello della competenza, il solo che attribuisce valore a ogni individuo nella sua concretezza sociale e storica e soprattutto il solo che permette agli apprendimenti realizzati a scuola di tradursi in funzionamenti. 

La nuova consapevolezza richiesta a chi opera nella scuola è che anche quest’ultima “si fa biologico” perché ciò che si apprende davvero non modifica solo il patrimonio di conoscenze e abilità ma “entra nella pelle”.