Nel dibattito sulle competenze del futuro appare interessante la proposta di Andreas Schleicher, direttore del dipartimento educazione dell’Ocse, di includere, fra quelle testate nell’indagine Pisa, oltre alle consuete competenze matematiche, scientifiche e di lettura sulla fascia di età dei 15enni, anche le competenze necessarie per navigare il mondo digitale. La declinazione di questa “digital competence” è degna di rilievo per due aspetti: verificare la capacità dei giovani da una parte di identificare le “fake news” e dall’altra di muoversi in un modo virtuale al di fuori della propria “mono-culture”.
Si tratterebbe, nell’indagine Pisa del 2018, di includere quesiti che verifichino la capacità dei quindicenni di vagliare le informazioni e distinguere le “fake news” nel mondo della rete. Contro le fake news è intervenuta l’Unione Europea con una risoluzione politica contro la disinformazione — attribuita alla Russia di Vladimir Putin e ai terroristi islamici dell’Isis — a favore dei movimenti populisti, e si sono levate voci contro i social networks più popolari, Facebook e Twitter, per far sì che questi introducano controlli volti a impedire la circolazione in rete di notizie false.
Certo impedire la diffusione delle fake news, che il meccanismo virale, a colpi di likes e shares, della rete amplifica in modo rapido è questione seria, che implicherebbe una riflessione sul perché queste fake news siano generate, cioè a quale scopo, e da chi; la gamma delle opzioni sul perché può spaziare da leggerezza a controllo dell’opinione, e il chi dal singolo soggetto a gruppi di potere più o meno occulti. E di converso, però, il tentativo di impedire la diffusione delle fake news pone l’accento sul problema del vaglio; chi vaglia le news per la rete, e come lo fa? Attraverso quali strumenti?
La proposta di Schleicher di testare la digital competence va nella direzione di verificare se i giovani, cioè chi sta nella rete da sempre, con un bisogno di connessione continua quasi incontrollabile, sa distinguere la notizia vera da quella falsa, uscendo da quell’effetto di “echo chamber” dove gli utenti accedono a notizie simili solo alle loro, e senza muoversi nella rete alla ricerca di più luoghi dove lo scambio di idee sia possibile.
Nella rete inoltre nessuna forma di organizzazione del sapere, nessuna catalogazione delle conoscenze, nessuna gerarchia è possibile; se ve ne è una, essa è occulta, e in tal caso, distruttiva di ogni forma di verità, in uno scenario al cui confronto nessuno mondo Orwelliano regge il paragone, e dove le fake news non sarebbero, per assurdo, null’altro che schiuma di superficie per ingannare l’occhio. Schneider propone un interessante confronto con il dinosauro della conoscenza, l’enciclopedia, che dopo aver navigato i secoli a partire dall’antica Grecia, si è dissolta nella rete. Ma la fiducia nell’enciclopedia cartacea, i dodici volumi rossi bordati di gialli, o marroni con scritte oro come quelle che hanno accompagnato i miei primi anni di scuola, corrispondeva veramente a un’attendibilità verificata, o a una fama di verità acquisita per quieta accondiscendenza, senza esercizio di “critical judgement”?
E’ proprio il “critical judgement”, il giudizio critico, quella competenza che Schleicher vorrebbe poter testare nell’indagine Pisa, ritenendo che per migliorare il benessere economico e sociale sia necessario, in ambito educativo, che le scuole insegnino ai giovani come identificare le “fake news”, valutando ciò che è affidabile e distinguendo ciò che è vero da quanto non è vero, mettendo in discussione quindi criticamente le informazioni.
Contemporaneamente Schleicher sottolinea la limitatezza della mono-culture, dove esiste una sola verità e solo uno stile di vita “vero”, a favore di una “multi-cultural attitude” che porti i giovani ad accettare una pluralità dove la diversità sia “something positive” — afferma Schleicher — e non “a problem”. La rete, per il suo avvicinare negli algoritmi il simile con il simile, e nel meccanismo del likes e shares ad esso conseguenti, incoraggia le persone a “comunicare e collaborare sempre più solo con persone che sono simili”. Questa omologazione nella mono-culture sarebbe secondo il direttore Ocse la ragione principale del terrorismo, in quanto manifestazione del rifiuto della diversità multiculturale, e negherebbe la storia dell’Europa che avrebbe mostrato il suo meglio quando le popolazioni si spostavano condividendo idea diverse.
Questo sembrerebbe un chiaro esempio, se non di fake news, perlomeno della difficoltà di verificare l’attendibilità di una news (la realtà di un’integrazione riuscita come esito della mobilità) che, pur essendo indubitabilmente idea nobilissima, rientra nel campo della “opinione”; ora, senza voler dare alla parola opinione alcuna accezione negativa, ma indicando con ciò il risultato di quel vaglio di critical thinking ormai da realizzarsi prioritariamente nel mondo digitale per la sua invasività e perversività, come è possibile validare il risultato di tale vaglio, da cui discendono tutte le news?
L’opinione come risultato di un vaglio critico è verificabile? E questo può generare un’accettazione della diversità che superi la monoculture, senza riproporre quel modello di accostamento delle diversità senza conoscenza che ha già decretato, proprio con il radicalizzarsi nella rete di cittadini di seconda e terza generazione in terra europea, il fallimento del modello multiculturale?
Come sarà quindi possibile alla nuova rilevazione Pisa del 2018 misurare le competenze in materia di verità delle opinioni e capacità di integrazione? La domanda non intenda essere espressione di scetticismo, ma, vista l’importanza e la validità della materia, di curiosità.