Oggi anche chi educa, anche chi fa scuola, anche chi ha la responsabilità di far crescere l’uomo non vive un’epoca di cambiamento, quanto un cambiamento d’epoca.
Lo ha indicato Papa Francesco a Milano, sabato scorso, incontrando i ragazzi cresimati: “Io consiglierei un’educazione basata sul pensare-sentire-fare, cioè un’educazione con l’intelletto, con il cuore e con le mani, i tre linguaggi. Educare all’armonia dei tre linguaggi, al punto che i ragazzi, le ragazze possano pensare quello che sentono e fanno, sentire quello che pensano e fanno, e fare quello che pensano e sentono. Non separare le tre cose, ma tutt’e tre insieme. Non educare soltanto l’intelletto: questo è dare nozioni intellettuali, che sono importanti, ma senza il cuore e senza le mani non serve, non serve. Dev’essere armonica l’educazione. Ma si può dire anche: educare con i contenuti, le idee, gli atteggiamenti della vita e con i valori. Ma mai educare soltanto, per esempio, con le nozioni, le idee. No. Anche il cuore deve crescere nell’educazione; e anche il “fare”, l’atteggiamento, il modo di comportarsi nella vita”.
Vale la pena di soffermarsi attentamente su questo passaggio. Non si tratta di una somma algebrica (pensare+sentire+fare) in cui il sentire venga solo reintegrato nella vita educativa e scolastica, attraverso alcuni dei suoi elementi più significativi per lo sviluppo, come alcune character skills. Paul Costa e Robert McCrae hanno avuto il grande merito di individuare cinque dimensioni del sentire (condivise e testate) con rilevanza costruttiva di personalità, e il premio Nobel per l’Economia James Heckman con il suo collega Tim Kautz hanno avuto l’ulteriore merito di porre le Big Five al centro della formazione e della valutazione del capitale umano. Un doppio merito che ha reso comprensibile il ruolo educativo del sentire; non più contenuto espressivo e intenzionale delle esperienze letterarie, poetiche, musicali e artistiche, ma metodo, strada per “Far crescere la persona”.
Le Five però, pur essendo Big sotto il profilo formativo, sono solo cinque rispetto alle 177 che hanno parimenti status e capacità di concorrere allo sviluppo e alla crescita umana, così come può pensarla e agirla un parlante italiano (per gli altri parlanti europei il rapporto di cinque a 177 potrebbe variare di poco, ma nessuna ricerca è stata condotta al riguardo, né potrebbe esserlo). D’altro canto e soprattutto, si tratta di un sentire che rimane estrinseco al pensare, che come tale rimane inalterato, e che si colloca alla base di un fare, che dal sentire viene soltanto dedotto, ma dal quale non si innerva, non prende linfa, non prende vita.
Quello di cui invece parla il papa è un pensare-sentire-fare come “armonia di linguaggi”; un’unità personale articolata in tre capacità diverse; un’unità di sostanza in tre dimensioni uguali e distinte. Oso immaginare che nel delineare la scuola del futuro il pontefice avesse in mente l’uomo come immagine di un Creatore che pensa (Padre), sente (Figlio) e fa (Spirito) in una unità intrinseca.
Allora si tratta di superare definitivamente, senza voltarsi indietro come la moglie di Lot, i residui dell’epoca moderna; di superare anche in ambito educativo e scolastico quel razionalismo che tanto male ha fatto e fa tutt’oggi al pensare e al conoscere, oltre che al sentire e al fare. Si tratta cioè di allargare la ragione, come auspicato dal predecessore Benedetto XVI, che aveva già indicato un medesimo orizzonte di cammino: poter “riconoscere al di là di quella strettamente razionale altre forme di verifica, in cui gioca il suo ruolo l’uomo nella sua interezza”. “Mi fa bene” o “Mi fa stare bene” — come dice spesso il papa in luogo di “Sono d’accordo”, “Condivido”, “Reputo corretto”, eccetera — significa proprio verificare, al di là di una modalità strettamente razionale, e con l’interezza di sé, la possibilità di un bene. Quando nel 1964 insegnava letteratura e psicologia, il papa rispose a un suo alunno: “Pepe, questo problema non ha soluzione”, non perché il problema fosse irrisolvibile, ma perché la sua soluzione prevedeva un approccio non meramente razionale, ma un cambiamento di sé, una trasformazione del modo di pensare, una metànoia.
In una ragione allargata il pensare non è solo un problem solving, una capacità di confrontare e paragonare, analizzare e sintetizzare, dedurre e indurre, porre nessi e inferire ipotesi. Una ragione così fatta, quella che conosciamo e che educhiamo a scuola, ci ha portato a esplorare Marte; a costruire grattacieli alti 163 piani; a misurare il punto più profondo degli abissi a quasi 11mila metri sotto il livello del mare; a volare a 7.200 Km orari; a operare in utero la spina bifida. Le cognitive skills sono immense e riassumibili in quella capacità tecnica e tecnologica di cui oggi si avverte la sproporzione, in un Occidente che non è stato capace di progredire allo stesso passo sotto il profilo della felicità, della pienezza umana, della capacità di bene per l’uomo così come è; un Occidente che non è stato capace di vero umanesimo. E nel 1950, a razionalismo ormai consumato, il premio Nobel Alexis Carrel scriveva (in Réflexions sur la conduite de la vie, pubblicato postumo), che sono venute meno le regole che danno consistenza alla vita; è scomparso lo sforzo creativo della personalità; è svanita la frontiera tra bene e male e le ideologie hanno corroso la civiltà.
In una ragione allargata il sentire è parte integrante. Una parte diversa rispetto alla razionalità, per certi versi autonoma, con caratteristiche e con funzioni diverse, con modi diversi di elaborare le informazioni, che parte da premesse diverse e che si muove in ambiti diversi, che arriva a conclusioni diverse, ma capace — tra le tante skills possedute — di forme di ragionamento e di pensiero troppo frequentemente dimenticate, come l’intuito, il presentimento, la creatività, l’ispirazione, l’immaginazione, la fantasia, la sapienza, la contemplazione, che hanno parimenti fatto grande la nostra civiltà, e che salvaguardano il bene dell’uomo e il rapporto innanzi tutto conoscitivo che egli instaura con la realtà. “Non si vede bene che col cuore” diceva la volpe al Piccolo Principe. Oppure l’attrattiva di tutte le culture antiche per il fascino del cosmo; lo stupore per quello che ci circonda; la percezione della bellezza della natura; la curiosità di sapere che cosa c’è oltre quello che si vede. “È paradossale — ha affermato recentemente l’astrofisico Marco Bersanelli —: oggi la tecnologia ci permette di scrutare le profondità dell’universo a un livello inconcepibile anche solo pochi decenni fa, eppure questa è la prima generazione che ha perso l’abitudine di esporsi alla meraviglia del cielo stellato”.
In una ragione allargata il fare costituisce non un’attività estrinseca al pensiero, un’appendice, ma la punta visibile, osservabile, dell’iceberg costituito dal pensare-sentire, e quindi un suo linguaggio comprensibile e comunicabile. Se un linguaggio comunicabile, allora anche portatore di senso. Se portatore di senso, allora anche educabile. Se infine è proprio l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà ad essere educabile, sottratto a mere regole di funzionamento, allora l’azione educativa che dall’unità dell’uomo scaturisce (non da sistemi di pensiero ideologici), restituisce l’uomo alla sua unità, lo consolida nella sua umanità, rendendolo costruttore di cattedrali.
Riprendendo il discorso del papa, questa è la forma della ragione di quell’allenatore di calcio che mise il ragazzo che si comportava male nel ruolo di capitano della squadra che egli amava tanto, dopo che la direttrice della scuola, che pensava secondo una razionalità disincarnata e astratta, era riuscita solo a porre regole, esacerbare gli animi, senza far crescere. Ora la sfida scolastica deve potersi estendere dall’ambito educativo a quello istruttivo, nel portare questa forma della ragione anche nell’interezza dell’insegnamento curricolare della lingua, della matematica, delle scienze, della musica, dell’arte, della ginnastica. Qualcuno ha già cominciato.