Secondo articolo dedicato ai Colloqui Fiorentini su Pirandello. Leggi qui il primo articolo (ndr).


“Me ne vado. 

Pausa 

Ammazzerei me, se mai… 

Pausa 

Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche… Come le mangia lei? con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono con due dita, per lungo… come due labbra succhiose… Ah, che delizia!” (L’uomo dal fiore in bocca)



La conclusione dell’atto unico L’uomo dal fiore in bocca vede il protagonista, condannato ad una morte imminente per un tumore al labbro, abbandonare la scena disperato, pieno di amarezza, disamorato di tutto ciò che più gli è caro, a partire dalla moglie, di cui non sa apprezzare l’amore viscerale, proprio perché sa che lo sta per perdere; tanto da desiderare di ucciderla o di uccidere il primo passante che gli capiti a portata di mano. “Me ne vado”, non significa solo che lascia la compagnia improvvisata dell’avventore incontrato alla stazione, ma è un’uscita di scena dalla vita, sconfitto e solo.



E poi esplode il “Ma”, imprevisto, illogico, folle, incoerente, ingiustificabile, e balena un’altra possibilità, fugace, magari, effimera, che poi potrà lasciare ancor di più l’amaro in bocca, ma che racconta un’altra storia; un istante di perfezione, che dischiude un altro orizzonte, felice, vero, grande: “Ma ci sono, di questi giorni, certe albicocche…”. Potrebbe non continuare, non insistere nella descrizione della bontà struggente dei frutti: quel “ma” ha già conquistato, ha già invaso il cuore. Non è la fine del racconto, che invece è cupo, come detto prima. Ma non importa: ormai quel “ma” è vibrato, incancellabile. 



Come per il povero marito malato della novella Il marito di mia moglie (capolavoro di umorismo già nel titolo): sa che sta per morire, sa che la moglie, che lo ha rispettato e gli è rimasta fedele, non appena egli sarà passato a miglior vita si risposerà, nella piena legittimità, col suo miglior amico Florestano; sa che il suo miglior amico Florestano, che lo cura nella malattia con premura ed amorevolezza, non appena sarà spirato, si prenderà, nella piena legittimità, sua moglie; sa che non dovrebbe adirarsi per questo, né essere geloso, perché la povera moglie ha diritto a rifarsi una vita; sa che il povero figlioletto Carluccio avrà bisogno di un padre che lo cresca, dopo di lui; eppure non può resistere all’amarezza che lo gonfia, ogni volta che ci pensa. E così: 

“Quando penso, certe notti, nell’insonnia, che egli [Florestano] si coricherà nel mio letto, al posto mio, lì, con tutti i miei diritti su mia moglie e su le cose mie: quando penso che nel lettuccio della camera accanto il figlietto mio, l’orfanello mio, qualche notte forse si metterà a piangere e chiamerà la mamma sua, e penso che egli a mia moglie che vorrà accorrere a vedere che cos’ha il piccino mio che piange, forse dirà: — “Ma no, cara, lascialo piangere; non scendere dal letto; ti raffredderai!” — io, Florestano, vi giuro, lo ammazzerei!

Invece, ogni notte, seduto presso la finestra, me ne sto quieto quieto a contemplare il cielo, a lungo. C’è una stellina piccola piccola lassù, a cui tengo fissi gli occhi e a cui dico spesso, sospirando: — Aspettami, verrò!”. 

È un climax ascendente, in cui l’ira gonfia, la stizza si fa insostenibile, fino a scoppiare in un impulso omicida… “Invece” accade un’altra cosa, di nuovo, imprevedibile: una stellina, che si accende in cielo, attrae irresistibilmente lo sguardo del povero condannato e, miracolosamente, lo quieta. Anche in questo caso, non risolve la situazione, non appaga definitivamente la vita; eppure vi infonde una strana pace, una distanza buona, che mette ogni cosa nella linea che unisce lo sguardo del povero marito con la luce commovente della stellina, cioè con l’orizzonte del destino.

Poi il racconto precipita ancora nello smarrimento e nell’amarezza:

“Mi metto a guardare dal cantuccio della vettura che va a passo per gli aerei viali del Gianicolo, questa dolcezza di sole che tramonta [la sua vita che finisce]; la vita, come la assaporeranno gli altri, anche amara, che importa? […] mia moglie che a casa, in attesa, anche lei sospira: e anche, senza più me, il mio piccino, che un giorno, presto, non saprà più chi ero, com’ero! — Papà… E Florestano, voltandosi, gli risponderà sgarbato: — Che vuoi? Il marito di tua madre, Carluccio, che non è il tuo papà vero. Ci pensi?

Ma la vita pure, Carluccio, è così bella… così piena…”

Cosa c’entra questa ultima frase? Come può accadere quel “ma” finale, come può permettersi di esistere nell’orizzonte evidente, elementare, definitorio della vita dell’uomo condannata alla morte?

Credo che non potesse rispondere neppure Pirandello a questa domanda. È privilegio dei grandi artisti, e dono commovente che fanno a noi lettori, saper dischiudere finestre su panorami a loro stessi ignoti, intuire orizzonti ingiustificabili, eppure così ardentemente desiderati. E non si tratta di eventi così rari, nelle pagine di Pirandello; forse effimeri, ma rari no. Ed hanno sempre a che fare con la bellezza della realtà, nelle sue manifestazioni naturali mozzafiato — come nella bellissima descrizione del cielo nella novella Il viaggio o nella famosa chiusa di Ciaula —, o quando si nasconde nei piccoli dettagli, apparentemente insignificanti: le albicocche dell’uomo dal fiore in bocca, il geranio della novella Di sera, un geranio, il filo d’erba di Canta l’epistola, il debole vagire di una neonata, fra le braccia di Mattia Pascal. Qui Mattia ha appena scoperto che, non solo sua moglie, appena saputo della sua morte, si è subito risposata (una sorta di proseguo de Il marito di mia moglie), ma ha pure avuto una bambina, mentre a lui era morta, dopo solo un anno di vita. E allora tutta la rabbia gli sale alla testa e lo conferma nel proposito di far saltare tutto:

“Restai al bujo, là, nella sala d’ingresso, con quella gracile bimbetta in braccio, che vagiva con la vocina agra di latte. Costernato, sconvolto, sentivo ancora negli orecchi il grido della donna ch’era stata mia, e che ora, ecco, era madre di questa bimba non mia, non mia! Mentre la mia, ah, non la aveva amata, lei, allora! E dunque, no, io ora, no, perdio! Non dovevo aver pietà di questa, né di loro. S’era rimaritata? E io ora… — 

Ma seguitava a vagire quella piccina, a vagire; e allora… che fare? Per quietarla me l’adagiai sul petto e cominciai a batterle pian pianino una mano su le spallucce e a dondolarla passeggiando. L’odio mi sbollì, l’impeto cedette. E a poco a poco la bimba si tacque”. 

Di nuovo un “ma” che si impone su tutti i propositi di vendetta e fa sbollire l’odio. In virtù di questo “ma”, del pianto di una neonata, del colore rosso del geranio, della dolcezza delle albicocche, della bellezza, cioè della realtà, rinasce una identità: attorno all’esperienza della bellezza, che non ha giustificazione, né logica, riaccade l'”io”: Mattia Pascal diventa, sì, il Fu Mattia Pascal, cioè una specie di scherzo di natura, ma è la prima volta che gli capita di essere qualcuno (o nessuno) per amore, per una scelta libera di amore, di pietà. Era stato Mattia Pascal per caso e sbadataggine; era stato Adriano Meis per ribellione: ora è il Fu Mattia Pascal per il pianto di una bambina, che gli impedisce di distruggere tutto quello che di buono e bello è nato attorno a lui.

È nel rapporto con la realtà, nel suo vertice, cioè nell’esperienza della bellezza, che Pirandello avverte la vicinanza alla propria umanità, il risbocciare del suo “io”. E non importa quanto buia è stata la vita, non importa che la propria weltanschauung non conceda speranza; basta un attimo di bellezza rivelata e l'”io” accade. Puoi aver vissuto come un animale, essere stato trattato come tale, considerarti tu stesso un bruto. In un istante tutto il tuo “io” accade. E così si impone l’altra grande piccola parola così frequente nei testi di Pirandello: “Ora”. L’istante improvviso, inaspettato, imprevedibile, nel quale tutto si svela, perché nell’istante, commovente epifania, si dà l’incontro fra l’io e la bellezza della realtà: 

Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.

Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la luna! La luna!

E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.”

“Si fa in un attimo, Signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…”

 

(2 – fine)