Per dirla come la dice Forbes, “Quando Mark Cuban parla, la gente ascolta”, e il messaggio dell’investitore plurimiliardario in un’intervista con Cory Johnson della Bloomberg Tv alla Nba All-Star Technology Summit in New Orleans è tanto semplice quanto lapidario: “La natura del lavoro sta cambiando”, e la rivoluzione non avverrà fra cinquanta, trenta o venti anni, ma dieci, anche solo cinque, il tempo di uscire dal college. Chi è oggi alla caccia del corso di studi garantito, quello che certamente fornirà le job skills indispensabili nel mercato di un prossimo domani, dovrà decidere se fidarsi o no della predizione di Cuban, che getta a mare con assoluta noncuranza quelle lauree in informatica che non garantiranno, nell’era futura della “automation of automation”, l’automazione dell’automazione, certezza di impiego.



Dopotutto, commenta ironicamente Cuban, scrivere software “è solo matematica”, e quindi la tecnologia stessa ucciderà i lavori che ha generato. La rapidità dell’innovazione tecnologica, che procede con ritmi mai visti e neanche immaginati prima, rende la previsione di Cuban qualcosa di più di un semplice azzardo, perché come non vi fu ritorno per i manufacturing jobs e ancor prima per i coal mining jobs, non ve ne sarà nemmeno per i software development jobs.



Quali quindi le lauree del futuro, se non del quindicenne che inizia oggi la scuola superiore, almeno del bambino delle elementari che è nato con il cellulare in una mano e un qualsiasi altro device nell’altra? Se essere nato nativo digitale non è la skill del futuro, quale è la vera skill, l’asso della manica?

Secondo Cuban sono il critical e il creative thinking, vale a dire la capacità da una parte di guardare oltre la superficie del mondo dei dati e valutarli, e dall’altra quella di elaborare idee nuove, utili, sviluppabili: dare un senso ai dati che l’automazione fornirà, ma manipolandoli con un punto di vista diverso, alternativo. I candidati migliori per questo processo sarebbero coloro che si laureeranno nelle liberal arts majors, e tanto per sparigliare le carte ancora di più Cuban cita inglese (“lettere” per noi), filosofia e le lingue straniere (non l’inglese), magari al momento a rischio di estinzione (le lingue straniere non godono di grande vitalità nel mondo anglofono che si pensa possa prescindere dall’apprenderle, visto che utilizza la lingua della comunicazione globale), ma il cui riscatto sarebbe, in termini relativi, imminente. Cuban si spinge anche a lodare il lavoro di volontariato come capace di generare quelle social skills che fanno parte a pieno titolo, accanto alle humanities, delle moderne liberal arts.



La riflessione sulle soft skills come componente essenziale, nella definizione di un character, un carattere inteso come una “personalità”, non in opposizione alle hard skills, può aiutare a collocare la provocazione-previsione di Cuban in un quadro più vasto.  

Può anche dare maggiore convinzione alle scelte di giovani che sembrano vivere di soli ideali, scegliendo oggi corsi di studio universitari apparentemente fallimentari; in America la National Association of Colleges and Employers riporta un 32,6% di lavori a tempo pieno della classe 2015 entro il gennaio 2016 dei philosophy majors, contro il 65,7% di business majors. Un doppio che spaventa, ma percentuali che rapportate ai laureati italiani della classe 2015 poi impiegati entro il gennaio 2016 sono sicuramente più confortanti.

Parrebbe opportuno a questo punto un elogio del percorso accademico italiano dalla scuola secondaria al mondo universitario, visto che le liberal arts, in modo particolare le humanities, sono ancora una sceltaimportante nella società italiana. Le iscrizioni ai licei per l’anno scolastico 2017/18 hanno raggiunto il 53,6%, e il fanalino di coda del classico ha anche ripreso qualcosa di quanto eroso. Come sempre noi (gli italiani) saremmo avanti anche quando sembreremmo essere indietro, visto che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia, pur sceso dal 39,2% di dicembre 2016 al 37,9% di gennaio 2017, è lì a testimoniare il mismatch fra domanda ed offerta che invece, nelle previsione di Cuban, l’Italia sarebbe addirittura armata per prevenire.

Il problema educativo sembrerebbe essere non solo quello di una literacy smarrita, come sottolineato nell’appello dei 600 professori universitari relativamente all’incapacità di utilizzare la lingua madre a scopi comunicativi, ma di una tradizione culturale che l’antichità creò con le arti liberali e che, trasformata, è a lungo sopravvissuta fino a che, verrebbe da dire, ed è stato anche detto più volte su queste pagine, la democratizzazione di massa e la tecnicizzazione della scuola non l’hanno demolita, di solito a suon di riforme.

Siamo ora al mismatch fra offerta formativa e domanda del mercato del lavoro, con la categoria del liceo percepita sopratutto dai genitori come la scelta ancora minimamente formativa nel panorama scolastico italiano, e sulla carta potenzialmente favorevole allo sviluppo di critical e creative thinking. Anche questa scelta rischia di essere tuttavia debole se viene fatta solo in vista delle hard skills (competenze diremmo strumentali, tecniche sia pur di livello significativo) e con scarso interesse e poca cura del character. Tranne poi disperarsi quando questo tratto, per fallimentari scolastici conclamati (e che possono mostrarsi sotto forma di bocciature, debiti, esiti costantemente mediocri, una crescita nulla delle inclinazioni e/o attitudini) o per atteggiamenti totalmente devianti e socialmente dannosi o deleteri, non risulti tristemente perso.

E con esso la possibilità di critical e creative thinking.