Una sentenza della Cassazione ha dato definitivamente torto all’Anvur, dopo un’estenuante e lunga vicenda, riguardo alla classificazione di una rivista in fascia A: la categoria cioè delle riviste che, per meriti scientifici, dovrebbero rappresentare la punta di diamante della ricerca e la pubblicazione nelle quali assicura, secondo le attuali norme, un fattore di preferenza nelle procedure concorsuali.
I critici dell’operato dell’Anvur possono accogliere la decisione con soddisfazione: in fondo essa sanziona definitivamente non solo un errore, ma anche l’ostinazione con la quale l’agenzia ha continuato a ritenere di poter ignorare i motivi giuridici a più riprese chiaramente formulati.
Ma in tutti, inclusi costoro, tale sentenza lascia l’amaro in bocca. Che debba essere un tribunale ad entrare in decisioni di merito che in ultima analisi rivestono il carattere di un riconoscimento scientifico appare quanto meno abnorme. Certo, si potrà rispondere che questa è nient’altro che la conseguenza di una confusa amministrazione che il giudice non ha certo creato, ma nella quale è stato lecitamente chiamato in causa. Rimane di fatto che non c’è da rallegrarsi se il baricentro della valutazione comincia a spostarsi sì dal potere esecutivo (l’Anvur è, con tutti i rischi del caso, un’agenzia di nomina governativa), ma solo per dirigersi verso il potere giudiziario.
Non c’è da gioire per almeno due motivi. Il primo è che questo significa che la sede delle decisioni strategiche sul futuro della ricerca e della cultura si sposta sempre più nel luogo del conflitto e della rivendicazione. Ovviamente non c’è nulla di male nel volere giustizia e nello sperare che vi sia un giudice a Berlino. Ma dall’altra parte è lecito desiderare che la comunità scientifica, pur senza nessuna romantica idealizzazione, possa alimentarsi delle sue forme di competizione, di concorrenza, anche di scontro, che non hanno nulla a che fare con la via giudiziaria.
Il secondo motivo è che questa involuzione dimostra una profonda debolezza del sistema accademico nel suo complesso. Se è giusto deplorare l’occupazione politica dell’università (non nella forma violenta dell’ideologia, ma piuttosto in quella subdola e defatigante della burocrazia), non meno bisogna lamentare l’impaccio dell’università nel fare fronte alle recenti trasformazioni, anche solo sotto la forma di un discernimento capace di accettare giuste istanze di equità e rifiutare insensate fughe nell’astrazione amministrativa.
L’autonomia della cultura non è un regalo da auspicare e attendere, ma un diritto da esercitare con autorevolezza e onestà. La sentenza della Cassazione mostra anche l’inadeguatezza di norme che l’accademia italiana avrebbe potuto rifiutare in cento occasioni, e non ha mai fatto.