Avviso urgente per i colloqui scuola-famiglia. Onde evitare inutili lamentele su questi ragazzi che studiano poco perché pensano solo al calcio o alla musica o alla danza, nonché le minacce di risolvere i problemi con premi e punizioni, bisogna portare con sé, insieme al registro, quello che ha raccontato Papa Francesco nello stadio di Milano:
“In una scuola c’era un alunno che era un fenomeno a giocare a calcio e un disastro nella condotta in classe. Una regola che gli avevano dato era che se non si comportava bene doveva lasciare il calcio, che gli piaceva tanto! Dato che continuò a comportarsi male rimase due mesi senza giocare, e questo peggiorò le cose”.
È ovvio: se gli togli l’unico spiraglio di gusto, da dove mai potrà andare a pescare il gusto per le altre cose? Anziché accentuare l’alternativa, serve abbatterla, accompagnando un ragazzo a scoprire come possano c’entrare il calcio e la scuola.
“Un giorno l’allenatore parlò con la direttrice, e spiegò: ‘La cosa non va! Lasciami provare’, disse alla direttrice, e le chiese che il ragazzo potesse riprendere a giocare. ‘Proviamo’, disse la signora. E l’allenatore lo mise come capitano della squadra. Allora quel bambino, quel ragazzo si sentì considerato, sentì che poteva dare il meglio di sé e cominciò non solo a comportarsi meglio, ma a migliorare tutto il rendimento. Questo mi sembra molto importante nell’educazione. Molto importante. Tra i nostri studenti ce ne sono alcuni che sono portati per lo sport e non tanto per le scienze e altri riescono meglio nell’arte piuttosto che nella matematica e altri nella filosofia più che nello sport. Un buon maestro, educatore o allenatore sa stimolare le buone qualità dei suoi allievi e non trascurare le altre. E lì si dà quel fenomeno pedagogico che si chiama transfert: facendo bene e piacevolmente una cosa, il beneficio si trasferisce all’altra”.
A detta del papa, se vai male a scuola ma ti piace il calcio, il modo migliore perché possa piacerti la scuola è proprio giocare a calcio: quando una cosa ti interessa veramente, potrebbe iniziare a interessarti il mondo intero. Ora l’esame di coscienza diventa obbligatorio: un insegnante sa che al suo alunno a cui non piace la matematica piace il calcio? sa come vive il suo alunno o non va oltre il suo rendimento? È una questione fondamentale: quello spiraglio di gusto può contagiare quello che non sopporta. Dobbiamo liberarci dall’illusione che ciò che non risolvi punendo lo risolvi premiando, e dalla follia del “prima il dovere e poi il piacere”, con cui generazioni di adulti hanno impedito ai ragazzi di scoprire perché valga la pena studiare. Già un secolo fa Carlo Michelstaedter aveva asfaltato questa logica devastante:
“Fin dai primi doveri che gli si impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo indifferente a quello che fa, perché pur lo faccia secondo le regole con tutta oggettività. ‘Da una parte il dovere dall’altra il piacere’. ‘Se studierai bene, poi ti darò un dolce — altrimenti non ti permetterò di giuocare’. E il bambino è costretto a mettersi in capo quei dati segni della scrittura, quelle date notizie della storia, per poi avere il premio dolce al suo corpo. ‘Hai studiato — adesso puoi giuocare!'”.
Lo slittamento dal gusto al dovere, mentre dà per scontato che non ci sia alcun piacere nel dovere, elimina la domanda di senso e riconduce lo studio a scotto insensato, parentesi estranea alla vita, apnea. “Quando al dolce e al giuoco si sostituisca il guadagno, ‘la possibilità di vivere’ —: ‘la carriera’, ‘la via fatta’, ‘le professioni’ — lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei gusti, per mangiare, bere e dormire e prolificare”. I bravi studenti, insieme agli onesti lavoratori, procurano danni incalcolabili: e il “maestro” che insegna “senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia — ma secondo il programma imposto” è parente del “boia” che uccide un uomo “senza sapere perché l’uccida”. Erano bambini a cui si diceva: “fai come dice il babbo che ne sa più di te, e non occorre che tu domandi ‘perché‘, obbedisci e non ragionare, quando sarai grande capirai”.
Non è più umano scoprire il perché dello studio? Forse basterebbe giocare a calcio: non come premio, né come fissazione, bensì come allenamento a sentire che è possibile godersi qualunque cosa. E ad accorgersi che poter studiare e poter lavorare, questi sì, sono già dei premi straordinari.