Come avviene un processo di integrazione sociale? E soprattutto come monitorarne l’andamento e la riuscita? A volte basta un dato statistico a insinuare dubbi, scatenare inquietudini, a evocare scenari preoccupanti. 

Succede a Como, a proposito di integrazione sui banchi di scuola: il 43% degli alunni stranieri, secondo un documento recentemente pubblicato dall’Ufficio scolastico regionale, è concentrato in un unico plesso scolastico, quello di Rebbio. Il dato, che in effetti non è in linea con i dettami di una circolare ministeriale del 2010 che fissava al 30% il tetto massimo di studenti stranieri per classe, ha richiamato l’attenzione sui rischi di una sorta di banlieue parigina stagliata sullo sfondo di squilibri e scelte ghettizzanti. 



Un altro indice sembrerebbe rafforzare la stessa tendenza: l’irrisoria presenza di studenti stranieri nei licei del territorio lariano, confermata dal 3% di iscritti al classico Volta di Como, da un 2% allo scientifico Galilei di Erba, che si indirizzano invece agli istituti professionali (Da Vinci, Ripamonti e Pessina) con un 19% di iscritti. Ed è soprattutto quest’ultimo elemento a insinuare il dubbio di qualche disfunzione nel meccanismo che di fatto sembra limitare l’accesso ad alcuni percorsi che potrebbero allargare il ventaglio a migliori opportunità per il futuro. 



“Il discorso è molto complesso e non sembra adeguato trarre deduzioni utilizzando dati molto aggregati” avverte Luca Monti presidente di Meet, associazione di Orientamento nel Comasco. “Oggi la proiezione verso il mondo del lavoro è determinante non solo per gli stranieri, anche se è vero che le famiglie italiane tendono spesso a una categorizzazione delle scuole più prestigiose. Le iscrizioni in università sono in calo. Il vero problema della scuola è l’efficacia: l’impegno comporta un certo stress emotivo, buona volontà unita alla chiarezza dello scopo professionale e alla motivazione… Ci si chiede oggi quanto e come una scuola generalista possa gestire tutto quello che ruota attorno a situazioni complesse e delicate”, prosegue Monti evidenziando un diffuso disagio fra gli studenti che spesso presentano problemi che non hanno a che fare con la didattica. 



E comunque, valutare il consiglio orientativo degli insegnanti nel passaggio dalle medie verso le scuole superiori, può essere importante per verificare eventuali logiche basate sul pregiudizio. “Teniamo presente che uno degli elementi che più incidono sulle scelte è proprio il consiglio dei docenti, determinante nel 70% dei casi”. 

Dalle semplificazioni nella lettura dei dati prende le distanze anche Franco Castronovo, docente che segue il tema dell’inclusione per il provveditorato di Como, che ritiene comunque doveroso mettere a fuoco il problema per certi versi ben più grave e complesso di quanto appaia: “Il dato più allarmante riguarda la dispersione scolastica elevata”, dice Castronovo, indicando una situazione che riguarda gli studenti nel loro insieme, sia italiani che stranieri, e che a Como registra un preoccupante primato (con l’abbandono precoce della scuola di uno studente su cinque) che già da tempo ha stimolato iniziative e progetti tesi a contrastarlo. Ma all’interno di un contesto nel quale la scuola “tenta con ogni mezzo di allargare le maglie dell’inclusione, si riscontrano difficoltà sempre più gravi confermate da alcuni dati certificati dall’Asl che attestano una disabilità cognitiva che fra gli alunni stranieri risulta doppia rispetto a quella degli italiani. Non è indolore insomma il travaglio che segna il percorso di quanti hanno abbandonato il loro paese o si ritrovano in una realtà ancora estranea, distante dall’humus della propria famiglia che stenta a parlare l’italiano. 

“Il primo passo che la scuola può e deve fare è tenere conto della unicità di ogni alunno” suggerisce Erasmo Figini fondatore di Cometa (realtà di accoglienza per minori) e della scuola professionale Oliver Twist, avviata proprio per contrastare la dispersione scolastica attraverso un metodo educativo basato sull’attenzione a ogni singolo studente aiutato così a scoprire il suo talento e a valorizzarlo. “Abbiamo coniato l’espressione ‘un vestito su misura’ per sottolineare la particolarità di ogni percorso educativo. Di fronte a ragazzi che hanno alle spalle vicende che noi non riusciamo neppure a immaginare, una proposta personalizzata, attenta a tutti i fattori in gioco, diventa l’unica possibilità per ricominciare ad aprire domande, desideri, a scoprire motivazioni che sostengano la fatica di crescere, di imparare, studiare, reinserirsi, lavorare…diventare uomini” afferma Figini, che riassume il senso di ogni proposta scolastica nel rapporto educativo che oggi si confronta con le nuove sfide dell’integrazione di alunni provenienti da tutto il mondo e che sarebbe improprio catalogare semplicemente come “stranieri”. 

“Diversa è la situazione di chi è arrivato da poco in Italia ed è mosso dalla voglia di fare, di lavorare, di mettersi alla prova a qualunque costo… rispetto a quanti invece sono nati qui, parlano bene l’italiano e sono a prima vista avvantaggiati. I primi in realtà richiedono molto ascolto, attenzione e un lavoro di accompagnamento per evitare che si alienino, si fermino alle prime opportunità immediate senza ipotizzare un percorso più impegnativo” racconta un docente di Cometa descrivendo un diverso atteggiamento dei ragazzi di seconda generazione che “non hanno il problema dell’integrazione in quanto parlano italiano e non si sentono diversi, ma hanno il problema dell’omologazione che sconfina spesso negli stessi disagi dei coetanei italiani, nelle stesse dipendenze dalle mode, in certe inerzie e disadattamenti che spesso accomunano i giovani”. 

La strada dell’integrazione in alcuni contesti sembra dunque tracciata, sperimentabile: esige un incontro reale, educativo, un impatto umano che sfugge a volte all’interpretazione dei soli dati numerici e ai teoremi che ne potrebbero derivare.