Caro direttore,
il rapporto Ocse-Pisa 0215 dice, semplificando, che gli studenti italiani accumulano ansia come pochi al mondo, ma che comunque sono felici di venire a scuola perché a scuola trovano tanta amicizia. Non ne sono convinto e allora vado a verificare la questione, con il risultato che una mia classe mi obbliga a rendermene conto e a dare ragione al rapporto. 



Di fronte alla domanda “che cosa vi rimane della scuola?” la risposta è univoca: ansia, solo ansia! “Ma come?” ribatto io incredulo e loro ribadiscono che le giornate sono scandite dall’ansia, che ogni giorno cresce sempre di più, con l’incubo di maggio in cui essa raggiungerà livelli ancora più alti. Non riesco a smuoverli, devo arrendermi e riconoscere che il rapporto Ocse ha colto nel segno: i nostri studenti sono oberati da un’ansia che supera i livelli di guardia. Allora comincio a guardarli sotto questa nuova luce e a non fare come di solito fa chi è avanti negli anni e minimizza perché sa che certe cose sono da sgonfiare in quanto non sono poi così decisive. Potrei fare tutti i discorsi che voglio e che sono anche giusti e realistici, sta di fatto che l’ansia la provano e hanno bisogno di qualcuno che li consideri a partire da ciò che sono e che vivono.



Mettendomi in questa ottica riesco a capire alcune cose di quest’ansia, che poi di fatto impedisce di gustare la vita quotidiana della scuola perché si è sempre protesi alla verifica o all’interrogazione dell’ora successiva. Mi faccio spiegare, alcune cose le capisco, non dico di aver colto il giudizio complessivo del rapporto Ocse ma alcuni aspetti mi si illuminano perché sono gli studenti a chiarirmeli.

Il primo, ed è la sfida più importante, è che l’ansia la produciamo noi e i loro genitori, perché la scuola è tutta misurata sulla riuscita e vale chi riesce a fare prestazioni di un certo livello. Li facciamo camminare sotto la pressione della riuscita e non nell’orizzonte dell’interesse e della meraviglia. Questa è una domanda importante: gli studenti, dentro l’ansia che provano, si accorgono che hanno bisogno di qualcosa che interessi loro e di qualcuno che valorizzi i loro interessi. Urge che da parte nostra si cambi direzione, il che non vuol dire non interrogare più, ma che la ragione per cui lo si fa è perché emerga ognuno di loro per quello che è. 



Il secondo aspetto che colgo è che loro cedono, pian piano si adattano a qualcosa che non vogliono. Da qui viene l’ansia che è un cedimento, e in alcuni casi è anche una perdita di contatto con la realtà. Dove sta il cedimento? Nel fatto che tanti di loro si adattano ad un meccanismo ripetitivo di studio, non vi mettono più la testa, non giudicano ciò che studiano. Il segno di questo adattamento è che non sono capaci di un giudizio sintetico, studiano tutto come se tutto avesse lo stesso valore. 

Il terzo aspetto è che è vero che la scuola è luogo di amicizia, ma ancora un po’ debole, perché non sa sostenerli nell’affronto della realtà. E’ come se dicessero che tutto va male e poi vi è un dato positivo, che siamo amici, però tutto continua e irrimediabilmente ad andare male. C’è qualcosa da fare anche in direzione dell’amicizia, che porta la promessa di qualcosa di nuovo fino a sfidare l’ansia, altrimenti è un ansiolitico di basso valore.

Mi chiedo dopo il rapporto Ocse e dopo averlo verificato in una mia classe se sarà possibile costruire una scuola senza ansia e, ahimè, mi rispondo di no. Il problema è che vi è ansia e ansia; l’ansia di cui parlano i miei studenti è qualcosa che li distrae dalla realtà ed è prodotta da uno scopo, quello della riuscita, che si è sostituito allo scopo vero, quello di imparare. Questa non è l’unico tipo di ansia, perché ve n’è un’altra, il sentimento della propria sproporzione e questo butta a capofitto nella realtà. 

Forse recuperando questa forma di ansia si tornerà a gustare la realtà, a vivere la scuola non come spauracchio ma come possibilità di diventare più grandi.