Approvate le deleghe della Buona Scuola, è tempo di bilanci e prospettive. “La scuola è un’istituzione politica e le sue questioni sono questioni politiche. Siccome la politica non è in grado di affrontarle perché nemmeno è in grado di capirle, dalla scuola dovrebbe sorgere un movimento di docenti in grado di imporre all’agenda del paese la scuola come questione nazionale”, dice al sussidiario Adolfo Scotto di Luzio, storico della scuola, docente nell’Università di Bergamo. Ma il professore è pessimista: “non è verosimile che la scuola reagisca alla miseria culturale cui è stata costretta in questi anni”. 



Professore, facciamo un passo indietro rispetto alle tecnicalità dei dispositivi e consideriamo la “riforma” nel suo insieme. E’ possibile una valutazione di massima?

La prima valutazione è che non si è trattato di una riforma. La storia delle politiche scolastiche nell’Italia repubblicana ha conosciuto un uso inflattivo della parola riforma. Parola, per altro, profondamente radicata nella tradizione novecentesca, dove significava una riforma religiosa a direzione laica delle classi popolari subalterne. Strumento di questa riforma doveva essere la scuola. Da questo punto di vista, la scuola diventava il tramite per mezzo del quale gli strati popolari entravano in contatto con la vita dello Stato e ogni discorso sulla scuola era un discorso intorno alla nazione, alla sua storia e alla sua comprensione in termini storico-politici. 



Questo cos’ha voluto dire dal punto di vista delle leggi dedicate al sistema scolastico?

Nell’Italia repubblicana, senza smarrire il nesso con questa tradizione, la riforma è stata essenzialmente la ricerca della legge organica, del grande testo legislativo che desse alla nuova Italia il piano generale della nuova scuola. Non ci riuscì Gonella tra il 1947 e il 1950 e non fu un male per il Paese. L’ istituzione della scuola media unificata alla fine del 1962, per quanto molto mitizzata, fu lo svolgimento della logica interna alla storia della scuola degli italiani, che fin dalle origini porta iscritta una forte e riconoscibile spinta all’unificazione e all’articolazione dell’ambito dell’istruzione secondaria. La scolarizzazione degli italiani nel secondo dopoguerra fu una generalizzata fuoriuscita dal perimetro della scuola ottocentesca degli elementi, già in atto fin dalla metà degli anni venti, e avvenne nel quadro di un’istituzione il cui profilo era stato definito durante il fascismo lungo la linea Gentile-Belluzzo-Bottai, come sistema tripartito: accanto alla scuola classica sorgeva il robusto impianto dell’istruzione tecnica e il più frastagliato sistema delle qualifiche professionali. Tutto sotto la direzione del ministero della Pubblica istruzione. 



E sembra di poter dire che questo sistema ha retto molto a lungo.

Questo sistema ha retto lungo la seconda metà del Novecento senza essere mai veramente messo in discussione. Ma quell’assetto non sarebbe stato sufficiente se non fosse stato alimentato dalla forte spinta politica sostenuta dalla Repubblica per colmare i profondi ritardi che, nonostante gli sforzi dispiegati, tanto l’Italia liberale quanto il fascismo non erano riusciti a superare. La scuola democratica dunque è frutto, più che della riforma, della volontà politica dello Stato democratico. Detto questo, bisogna aggiungere che la trasformazione di massa del nostro sistema di istruzione tra anni Sessanta e Settanta mette il Paese di fronte ad una realtà inedita che i partiti politici sono semplicemente incapaci di affrontare. 

Per quale motivo? Può soffermarsi su questo passaggio storico?

Per ragioni molto complesse da riassumere in questo momento, a partire dalla fine di quel lungo e travagliato decennio che furono gli anni Settanta il rapporto tra scuola e politica nel nostro paese si spezza. La scuola di massa assume i tratti di una fatalità storica e la riforma diventa un mero omaggio verbale alla retorica nazionale. Di fatto si diffonde la convinzione, non solo che una scuola di dimensioni elefantiache, con un numero di titolati tra studenti e aspiranti insegnanti impressionante, sia di fatto irriformabile, ma che non ne valga nemmeno veramente la pena. La scuola italiana diventa, a partire da quel momento e con una intensità crescente nel corso dei decenni successivi, un apparato burocratico di cui, al più, assicurarsi che funzioni. 

Il grande apparato burocratico che viene evocato quando si parla di governo della scuola. Un apparato “di cui assicurarsi che funzioni”, dice. Ma ha funzionato davvero?

Il “basta che funzioni”, cioè che non ci siano grandi intoppi nel meccanismo che fa andare la macchina, diventa il criterio guida delle nostre politiche di istruzione. Questo atteggiamento produce una vera e propria dismissione politica della nostra scuola. Lo Stato perde qualsiasi interesse di tipo ideologico nei confronti della sua scuola e, complici gli orientamenti culturali e ideologici che si diffondono a partire dagli anni Ottanta, si diffonde la convinzione che sia il mercato a doversi occupare dell’ istruzione. 

In altri termini?

La scuola viene di fatto restituita agli orientamenti privatistico-carrieristici delle famiglie. Di fatto si privatizza senza per questo dover dismettere la propria costituzione pubblicistica. Lo Stato paga gli stipendi a un milione di insegnanti e sovvenziona decine di migliaia di scuole, e non potrebbe fare altrimenti, a patto però di razionalizzare drasticamente il sistema, il che vuol dire comprimere il numero dei nuovi assunti, dunque la massa salariale, e, soprattutto, ridisegnare la rete dei punti di erogazione. Per il resto si disinteressa alla qualità di quello che si insegna e prima ancora a ciò che si insegna, confidando nella capacità di farsi sentire da parte dei portatori naturali di interesse, cioè le famiglie. 

Con quali conseguenze?

Se la scuola è un investimento e se gli investitori si aspettano un ritorno come è di tutti gli investitori, che in questo caso non può che essere misurato dalla posizione occupazionale e dal livello di reddito per i quali il possessore del titolo di studio è in grado di competere, è logico che questo investimento sia finanziato dal risparmio delle famiglie. Lo Stato si limita a garantire la scolarizzazione di base, che tale resta per chi non ha risparmi; tutti gli altri sono autorizzati a comprarsi la scuola migliore, vale a dire la scuola a cui hanno accesso sulla base della loro capacità di risparmio. In questo quadro la riforma della scuola perde qualsiasi significato e diventa la mera strumentazione burocratica necessaria a far girare gli ingranaggi di un dispositivo delegato al trattamento di moltitudini sommariamente alfabetizzate. In questo senso non ha molto senso parlare della “buona scuola” come di una riforma. 

Quando la legge 107 ha cominciato a prendere forma, tra il 2014 e il 2015, è risultato chiaro che il primo obiettivo del provvedimento riguardava la gestione del personale. A questo nocciolo duro facevano da contorno una serie di temi satelliti (quelli ai quali sono state dedicate le deleghe). Da più parti si è lamentata la mancanza di una riforma che incidesse sul curriculum dello studente. Che ne pensa?

Credo di aver già risposta prima a questo tipo di obiezioni. Posso aggiungere che sottomessa così brutalmente agli imperativi dell’economia, alla scuola viene essenzialmente demandato un compito di natura “affettiva”. In questo quadro i conseguimenti intellettuali degli allievi sono meno importanti e meno significativi rispetto alla loro capacità di acquisire habitus conformi alle richieste avanzate dall’organizzazione del lavoro. Affettivo nel senso di disponibile a lasciarsi plasmare sulla base di queste richieste. La formazione è più un problema di carattere, di abiti comportamentali che di capacità intellettuali.

Uno degli episodi più singolari della cronaca scolastica degli ultimi tempi è il fraintendimento sull’inclusività della scuola italiana che sarebbe emersa dai dati Ocse. Una nota de il Mulino ha svelato l’imbarazzante topica nella quale sono incorsi Renzi e Fedeli. Secondo lei di che cosa è indicativo quanto accaduto?

Bisogna rendere merito ad Alberto Baccini e all’edizione online della rivista il Mulino di aver smascherato il trucco. Di getto mi verrebbe da dire che questi sono gli incidenti tipici di quella versione parodistica dell’empirismo anglosassone che si è impossessata delle nostre istituzioni educative dall’asilo all’università e che ritiene che tutto sia misurabile. Ma basta leggere il bellissimo libro di Diane Ravitch, che invano ho cercato di far tradurre in Italia, The Death and Life of the Great American School System, per rendersi conto come intorno ai test, negli Stati Uniti, si sia prodotta e si produca una intensa e violenta attività manipolativa che ha per posta in gioco la sopravvivenza di istituti e di posti di lavoro. 

Da noi le cose non sono così drammatiche.

No, ma non si può ignorare che i numeri sono una tecnica di governo della popolazione, una tecnica minacciosa perché si costituisce al riparo di una finta oggettività e come tale pretende di sottrarsi ad ogni discussione pubblica. Di fatto i test sono la base per la costituzione di una sorta di polizia accademica al servizio della mediocrità e della stupidità. In fondo non chiedono altro che si stia all’interno di determinati parametri. Cosa si nasconde tuttavia dietro questa superficie di dati classificati non importa al legislatore e al decisore politico a qualsiasi livello del sistema di governo dell’istruzione. Dal ministro al preside al rettore universitario. D’altronde tutto questo era apparso chiarissimo ad una mente acuta come quella di Adorno. Nel suo Esperienze scientifiche in America notava che in un universo concettuale standardizzato, soggettività e oggettività erano del tutto invertite e oggettivo diventava l’aspetto non controverso di un fenomeno, quello che altrimenti chiamiamo il cliché, ciò che viene accettato senza discutere. Non bisogna andare in America per capire queste cose, basterebbe aprire un libro. Ma oggi chi li apre più i libri, soprattutto nella scuola?

Dirigenti e docenti accusano un grave malcontento. Gran parte del loro tempo è assorbita da adempimenti di carattere burocratico, che molto poco hanno a che fare con la formazione degli studenti in senso stretto. Questo secondo lei da che cosa dipende, alla radice?

La parola chiave è burocratizzazione e la burocratizzazione è una tecnica di governo. La scuola italiana oscilla tra rimpianti degli anni Settanta — gli organi collegiali — e miti tecnocratici. Ora i dirigenti scolastici non vengono da Marte e non sono né meglio né peggio dei loro colleghi. Gli organi collegiali, da parte loro, quando aspirano ad essere un contropotere all’interno della scuola o sono un’assemblea o sono una forma di interdizione sindacale opposta all’odiato rappresentante in loco dell’autorità amministrativa. Così non si va da nessuna parte. Il problema degli insegnanti è che non vogliono capire che i problemi della scuola non sono problemi che si possono affrontare all’interno del mondo della scuola. La scuola è un’istituzione politica e le sue questioni sono questioni politiche di prima grandezza. Siccome la politica non è in grado di affrontarle perché nemmeno è in grado di capirle, dalla scuola dovrebbe sorgere un movimento di professori e docenti che fosse in grado di imporre all’agenda del paese la scuola come questione nazionale. Ma per fare questo ci vorrebbe un dibattito, ci vorrebbero strutture culturali, riviste, organizzazioni professionali. Tutto questo non c’è, né mi pare gli insegnanti ne sentano la necessità. Per questo non è verosimile che la scuola reagisca alla miseria culturale cui è stata costretta in questi anni. Per quanto mi riguarda sono molto pessimista.

Una delle parole-chiave della scuola negli ultimi anni  è “autonomia”. Con questo termine si vuole indicare un principio organizzativo e sistemico dalle ampie ricadute didattiche. Che cosa è l’autonomia oggi? E’ stata realizzata, tradita, svuotata?

Questa è una domanda che dovrebbe rivolgere a coloro che all’autonomia hanno creduto e che hanno affidato a questo mito dei nostri tempi il compito di risolvere i mali della nostra istruzione. Che ne è stato di queste illusioni? Il problema delle discussioni di natura pedagogica è che gli attori principali di questo tipo di discussioni, pedagogisti, innanzitutto, insegnanti, educatori, hanno la pessima abitudine di mettersi davanti al naso i propri oggetti fantastici e mai la realtà, e così la discussione sull’autonomia è sempre stata una discussione su quello che l’autonomia avrebbe potuto essere. Nessuno ha mai impostato la discussione facendo attenzione alla crisi delle politiche pubbliche, alla trasformazione dello Stato e alle ragioni reali dei nuovi orientamenti. Tutti hanno voluto discutere di quello che l’autonomia significava a livello teorico, ma in questi termini l’autonomia poteva ben diventare una versione in terra del paradiso pedagogico, ma allora perché non discutere direttamente delle proprie aspirazioni personali?

Ancora sull’autonomia. Una dialettica ricorrente, soprattutto nei difensori di quest’ultima, è stata quella del binomio autonomia vs. centralismo. Questa opposizione è fondata? E’ il centralismo il male della scuola italiana?

Ogni volta che si discute di questi argomenti spunta lo spettro di Giovanni Gentile, Napoleone, la centralizzazione giacobina. Il più recente di questi riferimenti ha ormai cento anni. Come definirebbe lei questo modo di discutere? A me viene in mente una parola sola: ideologia. Abbiamo avuto molti ideologi della scuola in questi anni e molte petizioni di principio. Pochi hanno voluto analizzare le questioni scolastiche in termini concreti, che vuol dire una cosa sola: storici.

Chi governa oggi la nostra scuola?

La prima risposta è nessuno. E quando non c’è un principio di governo chiaro alla fine prevale il più forte. Forza e giustizia, potere economico o politico e coerenza di un indirizzo educativo non vanno mai d’accordo.

Lei, da storico dell’istruzione,  interpreta tendenze di lungo periodo. Verso dove sta andando oggi la nostra scuola e che cosa ci attende?

Stiamo andando, se non ci siamo già arrivati, verso un radicale svuotamento della scuola democratica. La scuola democratica, quella destinata cioè alle persone di poche fortune, è destinata a trasformarsi in un dispositivo burocratico a basso funzionamento intellettuale. E siccome la capacità di discriminare con precisione i significati del mondo, tanto del mondo che sta dentro di noi, che del mondo che si svolge fuori di noi — per dirla in altri termini, la capacità di pensare —, è la base reale dell’autonomia degli individui, stiamo andando verso una scuola che smette di avere come proprio obiettivo, se non nelle parole di una vuota retorica, quello di munire il sentimento di libertà individuale. 

Di quale libertà parliamo?

Non evidentemente della libertà di comprare, ma della libertà come capacità di leggere consapevolmente la propria posizione nel mondo; e sulla base di questo presupposto, di scegliere nella sfera pubblica.

(Federico Ferraù)