Il decreto legislativo sulla valutazione contempla cambiamenti non solo per la scuola secondaria di primo grado; anche la scuola secondaria di secondo grado viene riformata ma con un anno “sabbatico”; farà il suo debutto nell’anno scolastico 2018/19, fra due anni, con alcune differenze, in una “nuova formula”.
A livello strutturale nella nuova formula le tre novità sono la scomparsa della terza prova, la valutazione del percorso di “Cittadinanza e Costituzione” e di alternanza scuola-lavoro presentata dal candidato, e l’aver sostenuto nel corso del quinto anno le tre prove Invalsi in italiano, matematica e inglese (come requisito di accesso all’esame), mentre a livello valutativo le innovazioni sono sostanzialmente due: un credito più elevato dato al percorso del triennio (che inciderà maggiormente sul punteggio finale), e la possibilità di ammissione anche con “una materia o gruppo di materie” non sufficiente.
Non verrà certo compianta dagli studenti la terza prova, il “quizzone” su più materie dove non la legge dello Stato, ma la consuetudine didattica (la terza prova è presente nell’esame di stato dal 1997), ha nel tempo ridotto la gamma di opzioni previste originariamente (trattazione sintetica di argomenti; quesiti a risposta singola; quesiti a opzione di risposta; problemi a soluzione rapida; casi pratici e professionali; sviluppo di progetti) alle due (o tre) domande da dieci righe, tristemente tratte, nella peggiore delle ipotesi, dal programma finale delle discipline in base ai titoletti dello stesso, oppure desunte, nella migliore delle ipotesi, dalla lettura del manuale in adozione, oltre che dalla lettura del documento del consiglio di classe.
Un certo scetticismo relativo alla validità delle domande redatte per la terza prova dai commissari esterni mi pare d’obbligo, se si considera che organizzare dei quesiti realmente rispondenti ad un percorso didattico unico quale quello di ogni classe richiederebbe qualcosa di più di quanto la legge non consenta, vale a dire la lettura del documento del consiglio di classe e dell’esempio di terza prova in esso contenuto. Che sia stato per questo difetto didattico intrinseco, o perché le materie presenti in terza prova sono diverse nelle varie scuole, perché legate alla presenza dei commissari interni, sta di fatto che la terza prova morirà nell’estate 2019. Riposi in pace.
La terza prova sopravviverà ancora un anno, come parte della “vecchia formula” dell’esame, per gli studenti attualmente frequentanti la classe quarta e che nell’estate 2018 si troveranno a dover affrontare la terza prova e a dover conquistare, almeno in sede di delibera di ammissione del consiglio di classe, la sufficienza in tutte le discipline. Sarebbe interessante effettuare un sondaggio in rete fra gli studenti che frequentano attualmente la classe quarta e chiedere loro se si sentono avvantaggiati o svantaggiati rispetto ai Millennials (sono proprio i nati nel 2000 che avranno a che fare con la “nuova formula”), e se reputano che tre prove Invalsi in meno (niente italiano, inglese e matematica per loro come requisito di ammissione all’esame) valgano ben una terza prova in più. Gli andrebbe anche chiesto cosa pensano della scomparsa per loro dall’esame di Stato della valutazione, data come obbligatoria in sede di istituzione, delle 200 ore di alternanza scuola-lavoro (Asl) nei licei e di 400 altrove, faticosamente ed ingegnosamente racimolate per molti, almeno ai licei, attraverso Ifs, progetti sul campo, esperienze personali, internship all’estero, in una varietà di forme che ha visto il peggio e il meglio dell’inventiva dei consigli di classi.
La validità di un percorso potenzialmente innovativo, quale la crescita in Asl della persona in ambito non didattico come risorsa per la costruzione della stessa in ambito didattico (che è come dire che uno studente che abbia una famiglia alle spalle fa un’esperienza di formazione di sé che uno senza una famiglia, per assenza colpevole o dolorosa, non fa), non è certo legata al suo essere “validata”, permettetemi il paradosso, da una relazione (necessariamente breve) ad inizio colloquio nell’esame di Stato. Ma se non lo è, perché inserire questa “validazione”? E perché farla decadere, se lo è? Togliere una terza prova, rivedere i criteri di attribuzione dei crediti, ammettere anche con un’insufficienza, sono tutte operazioni che non richiedono altre che il colpo di spugna di un decreto legislativo; perché allora non inaugurare la nuova formula dell’esame di Stato nell’estate 2018, dando modo anche ai non-Millennials di sfoggiare i percorsi Asl di ben tre anni, visto che questi studenti hanno iniziato in terza a accumulare, da brave formichine, le ore di Asl?
Oltre che ragioni di “opportunità pragmatica” (percorsi non svolti? svolti solo in parte? in modo poco qualificante? il problema di candidati esterni non esentati dall’aver svolto il percorso di Asl nella sua interezza, cosa difficile per candidati dai percorsi scolastici normalmente non “regolari”), un altro “ragionevole dubbio” si insinua a proposito dell’avvio della nuova formula solo nell’estate 2019, nonostante che della revisione della Maturità secondo queste linee si vociferi da almeno due anni.
L’articolo 19, comma 2 del decreto attuativo parla di prove Invalsi della lingua inglese di “posizionamento”, da effettuarsi eventualmente in “convenzione con gli enti certificatori, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Ecco quindi brillantemente risolto il problema di un Invalsi di inglese, anche computer-based, già sollevato in passato; viene affidato tramite convenzione agli enti certificatori (quali, si sa già, visto che l’elenco degli enti certificatori riconosciuti dal Miur è pubblico e contempla solo quelli che certificano tutte le abilità per tutti i livelli), ma la redazione di convenzioni, nonché la gestione di una prova di Listening e Reading e forse Use of English (difficile immaginare una prova computer-based per Speaking e Writing) richiede probabilmente qualcosa di più dei dodici mesi fra oggi e le ipotetiche prove Invalsi di aprile 2018. Ergo, meglio rimandare.
Il fatto che la stipulazione di queste convenzioni debba essere “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (la famigerata formula che per taluni impedirebbe l’istituzione di un buono-scuola da spendersi anche nella scuole paritarie, e che ha fatto anche sollevare scudi contro la pur magra detraibilità di parte delle rette pagate sempre alle paritarie) fa sorgere qualche altro dubbio, o legittima curiosità: visto che nel mercato del lavoro nessuno fa niente per niente, anzi, si richiede un legittimo pagamento in cambio di prestazione o servizio ricevuto, cosa spingerà gli enti certificatori a tentare di accaparrarsi le sopracitate convenzioni, se esse non daranno luogo a costi per la finanza pubblica e, ergo, a profitti per loro? Buone pratiche di marketing?
Nel frattempo, studenti delle classi quarte, unitevi e pretendete la legittima soddisfazione del veder riconosciuto parte del vostro lavoro, le 200 o più ore di Asl che avrete descritto in relazioni, temi, o, forse, già dimenticato.