“Ripeness is all”, diceva Shakespeare in una sua tragedia: la maturità è tutto. Se la maturità però è quella liceale e nella frase si intrufola il verbo “fare”, davvero succede la tragedia: la maturità è fare tutto. 

È la fissazione di troppi insegnanti: “fare tutto”. Si sono presentati fin dal primo giorno dell’ultimo anno con l’inquietante affermazione “siamo indietro col programma”, tra lo sconcerto collettivo della classe, che si chiede sotto quali ombrelloni si sia potuto improvvisamente accumulare tanto ritardo. Loro, intanto, lo ribadiscono un’ora sì e un’ora no: “siamo indietro”. Tale rincorsa ansiosa e ansiogena è fomentata dalle chiacchierate in sala docenti: “tu dove sei arrivato?”. A volte qualcuno candidamente si bea, ad aprile, che sta finendo Alda Merini: allora subito lei, impaludata da settimane nella Coscienza di Zeno, mastica amaro in pubblico, ma poi si precipita inferocita in classe, li chiude dentro e inizia a elencare l’improponibile formazione Ungaretti Montale Saba Quasimodo Calvino Pavese Levi Pasolini Sciascia Gadda Morante: e tu capisci già che vuole rifilarti tutto Calvino in un’ora e mezza, ingozzarti di Quasimodo che “ve lo studiate a casa per i fatti vostri” e infliggerti Montale in qualche meriggio pallido e assorto. Alcuni hanno già promesso che, per recuperare, faranno 4 ore supplementari di pomeriggio: pezzenti! pidocchiosi! Avete avuto 4 ore alla settimana per 3 anni, ossia 400 ore complessive, e ora ne andate cercando altre 4, altre miserrime 4, come se quest’1 per cento in più potesse mettere una pezza a quel che non avete quagliato per tre anni mentre perdevate tempo a ciarlare dei fatti vostri anziché leggere Pascoli!



Ora, per favore, rilassatevi. Innanzitutto smettiamola con la favoletta del programma. Diciamolo una volta per tutte: il programma ministeriale non esiste più da anni. Ora vigono indicazioni e competenze. Vale a dire: non c’è scritto da nessuna parte, a priori, che in italiano bisogna arrivare fino a un certo autore. Il programma è soltanto quello che, a posteriori, scrive il singolo insegnante. Se dunque a maggio un insegnante afferma che non possiamo non “fare” Primo Levi, perché “se poi il commissario esterno ve lo chiede che figura ci facciamo?”, la risposta è una sola: “prof, se lei sul programma Primo Levi non lo mette, il commissario esterno, semplicemente, non lo trova scritto e quindi non ce lo chiede”. E se si trincerasse dietro lo spauracchio dello scritto, ridetegli in faccia: delle sette tracce di italiano, infatti, una sola riguarda un autore ed è l’analisi del testo, che tuttavia intende verificare quanto uno studente sia in grado di analizzare un testo sconosciuto di un autore sconosciuto (per esempio, L’infinito viaggiare di Claudio Magris).



Ma lei no, lei è divorata dalla smania di “fare tutto“. Il culmine dell’assurdo si tocca quando vado a fare lezione in altre scuole, poniamo su Ungaretti: leggo per un’ora e mezza tante sue poesie, e per un attimo il tempo si ferma sugli occhi lucidi anche degli insegnanti. Alla fine si avvicinano e mi ringraziano, quasi in estasi. Un attimo dopo: “certo, sarebbe bello poter fare lezione così, ma noi non possiamo perché dobbiamo portare avanti il programma”. Ecco, a parte il fatto che il programma non esiste, ma… scusatemi tanto, leggere Ungaretti non vuol dire anche andare avanti con il famoso programma? No, si difendono: “andiamo di fretta, siamo pressati…” ma da chi? chi vi mette fretta? “Non c’è tempo di fare tutto”: ma tutto cosa? Tutto, cosa significa?



“Tutto” è una parola che solo gli ignoranti pronunciano. “Tutto” è un’aspirazione irraggiungibile. Mi spiegate cosa vuol dire “fare tutto”? Dicono che sono indietro perché, se al quinto anno bisogna “fare” il Novecento, il programma degli anni precedenti andrebbe ridimensionato. E ridimensionalo, allora. Chi ti ha detto che dovevi perdere tutte quelle ore a blaterare dell’umanesimo in terza e di Cesare Beccaria in quarta? Non sarebbe stato meglio leggere il Canzoniere di Petrarca — tutto, sì! — e poi direttamente L’Orlando furioso? “Eresia! E il Quattrocento? E Lorenzo de’ Medici? E Poliziano? E Pulci? E Valla? E l’humanitas?” 

No, cari miei, non si può fare tutto: vi sfido, qualcuno di voi ha fatto “tutto” Poliziano? Assegnare un paragrafo vuol dire “fare” un autore? Mi spiegate cosa significa “fare” e cosa significa “tutto”? Tutti gli autori del Novecento? Ma quanti credete che siano? Dieci? E Luzi? E Caproni? E Betocchi? E Zanzotto? E Noventa? Siamo almeno sull’ordine delle centinaia. O meglio: siamo sull’ordine dell’incommensurabile, perché leggere un romanzo vuol dire infilare il mignolino nella prima goccia dell’oceano. E poi cosa vuol dire “fare” un autore? “Leggere” già sarebbe un verbo più umano. Ma leggerlo “tutto” si può? Esiste un “tutto Pirandello” o un “tutto d’Annunzio”?

Gabriele d’Annunzio, a proposito: quello va fatto perché è importante per le tesine. Ma si può pensare di “fare” d’Annunzio perché in due ore si sparano quattro chiacchiere sull’estetismo e sul superuomo? “Fare” d’Annunzio vuol dire, perlomeno, metterci un po’ di tempo per leggere Alcyone o Il piacere. “Eh, va be’… non abbiamo tempo di leggere Il piacere: noi dobbiamo fare l’estetismo!”. E no, cari colleghi: senza Il piacere voi l’estetismo non potete farlo. Al massimo potete fare le estetiste: siete ancora in tempo.