In un Paese nel quale il titolo di studio ha un “valore legale” sottolineato dal rito della ceralacca che chiude ogni sessione dell’esame di Stato, la notizia che “solo il 20 per cento degli studenti ha i voti che si merita” dovrebbe creare allarme. E serio.

Pare che i docenti, strapazzati dalle famiglie, sbugiardati e ridicolizzati dal Tar che ammette lo studente a frequentare la classe superiore riservandosi di discutere nel merito un anno dopo, sbattuti su banco degli imputati per ogni problema, perseguitati dagli esperti di Dsa di parte, abbiano alzato bandiera bianca e distribuiscano più sufficienze che al tempo del sei politico.



In altri tempi e in altri luoghi si sarebbero sguinzagliati ispettori (ma noi ne abbiamo pochi, quasi tutti promossi sul campo e in ufficio) e si sarebbe aperto un ampio dibattito per capire cosa stia succedendo. 

Il professore pugliese che ha sollevato questo polverone era stato sanzionato dal suo dirigente per eccessiva severità e solo dopo cinque anni è stata riconosciuta la sua “innocenza”.



Ma la valutazione degli apprendimenti degli studenti non risponde a regole precise? La valutazione non deve essere tempestiva, trasparente, equa e omogenea e tracciabile per le famiglie? La valutazione non deve servire a far comprendere ai ragazzi i loro punti di forza e i loro punti di debolezza per migliorare costantemente e raggiungere il “successo formativo”? Dopo interminabili collegi non vengono pubblicate le griglie di valutazione? I genitori non hanno in tempo reale i voti sul registro elettronico? 

Forse durante il lungo periodo nel quale i docenti sono stati graziati dell’obbligo di aggiornamento è stato cancellato dalla coscienza della categoria tutto quanto era stato scritto in proposito e si sono persi alcuni riferimenti importanti, e così, mentre in alcune realtà sopravvivono comportamenti ai limiti del sadismo in nome della libertà d’insegnamento, nella maggior parte delle scuole si è puntato non alla qualità dell’apprendimento e alla crescita degli allievi ma al quieto vivere.



E’ difficile in un paese allergico alla valutazione, alle prove Invalsi, al tentativo di differenziare la retribuzione dei docenti, riprendere in mano la situazione e perfino alcuni strumenti come l’autovalutazione d’istituto, in mancanza di un controllo efficace, puntano tutto sull’inclusione, come ha osservato recentemente Ernesto Galli della Loggia, facendo diventare il numero dei promossi l’indicatore più importante dell’efficienza della scuola. 

Così, durante open day affollatissimi di ansiosi genitori e disinteressati ragazzini, la magica comunicazione “In questa scuola non si lascia indietro nessuno”, cioè non si boccia, attira come il miele.

Ma a cosa serve una scuola che non distingue tra chi ha conoscenze e competenze sufficienti ad affrontare il successivo percorso di studio e di lavoro e chi non le ha? Sicuramente fa più danni ai secondi, perché aggiunge all’incompetenza la sensazione di essere un oggetto passivo del percorso educativo al termine del quale non si può far altro che subire una nuova e più pesante serie di delusioni.

Per molto tempo si è ritenuto che la scuola (art. 34 della Costituzione) dovesse svolgere un ruolo di ascensore sociale e le tante storie di ragazzini bravissimi che, nati anche in famiglie analfabete, riuscivano a raggiungere i più alti livelli dell’istruzione e ad avere successo nella professione ci hanno commosso e rasserenato. Adesso la scuola rischia di essere un montacarichi che porta solo ai piani bassi, egualizzando generazioni di illusi e scansafatiche che non sono stati aiutati a conoscere i loro pregi e i loro limiti, che non si sono esercitati nella discussione, nel confronto, non hanno imparato ad imparare e soprattutto non hanno compreso il valore dell’istruzione ma solo la generica utilità del cosiddetto “pezzo di carta”.

Quanto tempo ci vorrà perché si capisca che il “titolo” vuoto non serve più perché da solo non lo prende in considerazione più nessuno? Non l’università, che si affida ai test e poi organizza corsi per insegnare alle matricole a leggere e scrivere; non il mondo del lavoro, a parte qualche piccola sacca residua del pubblico impiego dove grazie al diploma o alla laurea puoi metterti in fila e aspettare la sanatoria; non inorgoglisce più neanche i genitori, che non possono più dire “mio figlio Ragioniere” come Alberto Sordi nel Borghese piccolo piccolo.

Se i ministri dell’istruzione, invece di preoccuparsi di lasciare alle future generazioni un tangibile segno della loro presenza con inutili e frammentarie miniriforme dell’esame di Stato che appaiono come i pagliacci a molla a ogni cambio di Governo, riflettessero sul problema della valutazione degli apprendimenti in modo serio, forse si potrebbe cambiare qualcosa.

Potrebbe essere utile fare riacquisire ai docenti la consapevolezza del fatto che sono loro i titolari della funzione docente e che promuovere indiscriminatamente non aumenta ma diminuisce la fiducia e la stima nei confronti della categoria.

Si dovrebbe incentivare la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti (e anche dei dirigenti) sulla valutazione degli apprendimenti, rendere obbligatorio l’uso di griglie di valutazione per ogni tipo di prova con controlli a campione per verificare la corrispondenza tra il dichiarato e l’agito, chiedere conto degli interventi di recupero, studiare indicatori significativi da inserire nell’autovalutazione d’istituto.

Si potrebbe rivedere il sistema dei crediti della scuola secondaria di secondo grado non per spostare qualche punto dalla competenza della commissione a quella del consiglio di classe, ma per creare un sistema bonus-malus che consenta di passare da un anno all’altro anche con una o due insufficienze ma in modo palese e con una penalizzazione chiara del credito a partire dalla prima classe e, di conseguenza, definire in modo inequivocabile i criteri per  l’ammissione agli esami di Stato in modo da non costringere i consigli di classe ad arrampicarsi sugli specchi per ottemperare a norme che sembrano appartenere a un altro Paese.