Le scuole sono sempre luoghi un po speciali. Per i ragazzi che vi trascorrono tanti tempo, affidati a coloro che hanno il compito di istruirli, o, almeno di non annoiarli troppo. Ma anche per i genitori, che vi devono lasciare per parecchie ore ciò che hanno di più caro, cercando di farsi coraggio, che sì, in fondo devono diventare grandi anche loro, anche se in fondo in fondo, se potessero, se li terrebbero sempre in braccio. Tra le scuole ce n’è una un po’ più speciale delle altre, non solo perché è la nostra: l’hanno fatta proprio dei genitori, in forma di cooperativa, perché potesse esistere un posto a cui affidare i propri figli, che fosse, appunto, all’altezza della loro fede. Nasce così a Milano, oltre 40 anni fa, La Zolla, e da allora rimane un luogo dove i genitori si sforzano di costruire qualcosa che aiuti i loro figli a staccarsi da loro, a diventare grandi. 



Capita anche che, in questa scuola, questi stessi genitori, pieni di dubbi, chiedano a qualcuno, professore, filosofo, scrittore o esperto, un aiuto, perché le domanda da cui ha avuto origine la scuola (“esiste un luogo dove i nostri figli possono fare la stessa esperienza di fede che abbiamo fatto noi?”) si è moltiplicata, e ne genera sempre di nuove. 



Da qui è nato un dialogo tra un genitore, Giacomo Poretti, che nella vita fa anche l’attore comico, e un filosofo, Silvano Petrosino, che invece fa il professore universitario. Ne riportiamo alcuni stralci, così come li abbiamo capiti, certi che possano, in qualche modo, essere utili anche a chi legge, come lo sono stati per noi.

Giacomo Poretti: “Oggi un genitore è pieno di dubbi. Abbiamo chiesto ad un filosofo di accompagnarci dentro alle aule dove i figli trascorrono gran parte della loro giornata, seduti nei banchi, quando fuori il sole invita a correre su un campo di calcio, o a rincorrersi sulle biciclette. Perché i ragazzi devono stare qua e non fuori? Cosa stiamo chiedendo ai nostri figli, quale sacrificio proponiamo loro? In vista di che cosa? Per loro desideriamo il meglio, ma lo desideriamo per loro o per noi? Questo meglio non è ambiguo? Rispetto a chi, rispetto alla vita dei genitori? Non è che siamo noi che avremmo voluto una vita migliore? Oppure dentro la parola ‘migliore’, finiamo per desiderare che i nostri figli siano meglio di chiunque altro?”



Silvano Petrosino: “La questione è: in vista di che cosa? Essa non riguarda solo i ragazzi ma tutti. Ci sono delle risposte immediate e semplici: in vista di una vita agiata. Giusto! Mica male!, In vista di un successo! Però non dobbiamo nasconderci dietro ad un dito: sappiamo che non è così. Io rispondo con una risposta banale: in vista del bene. In fondo tutto quello che facciamo è per il bene (anche studiare gli affluenti del Po). Questa risposta introduce ad una tentazione: che cos’è questo bene? Non lo sa nessuno, quale sia il bene dei nostri figli non lo sa nessuno. Non lo sappiamo noi, non lo sa il figlio, non lo sa neanche Dio. Il bene non è qualcosa che ci attende ‘là’, ma implica la risposta e la decisione di ciascuno di noi. Non è qualcosa che è già fatto: il bene per i nostri figli implica la loro risposta e la loro decisione, che è loro. Per questo non lo sa neanche Dio. Cosa sia il bene è abitato da un radicale non sapere: ed è bene che sia così. Il bene si costituisce nel modo come tu rispondi e in come tu decidi. 

Alla fine di una presentazione di un mio libro (Piccola metafisica della luce) un frate mi dice: ‘A noi hanno sempre insegnato una cosa: che Dio è la luce e noi dobbiamo riflettere la luce di Dio’. Grande questione! Giusto! Ma neanche per un secondo è giusto! Se noi dovessimo riflettere la luce di Dio, Dio si vedrebbe raggiunto dalla sua immagine, in un insopportabile narcisismo. Noi non dobbiamo riflettere la luce di Dio: la dobbiamo rifrangere. Ogni sostanza ha un suo angolo di rifrazione, una sua specificità. Noi dobbiamo ritornare secondo il nostro carisma, la nostra unicità. Ogni elemento ha un suo angolo di rifrazione che si riconosce facendolo attraversare da un fascio di luce: e così si riesce a vedere e si dice: è lui! Se vedi Picasso, dici: è lui! Vedi Modigliani e dici: è lui! Noi dobbiamo dire ai nostri figli: sei tu!”.

Giacomo Poretti: “I genitori moderni sono pieni di dubbi. Si dubita di tutte le scelte che la scuola fa. Perché così poche ore di inglese? Perché in gita si va a Barcellona e non a Londra dove parlano inglese? Perché quando si fanno i colloqui con gli insegnanti si parla in italiano e non in inglese? Non ho nulla contro l’inglese se non il fatto che si è reso così antipatico, che ha fatto di tutto perché io non lo imparassi. Alla fine prima ho fatto il metalmeccanico, e il mio collega non mi diceva ‘Please, give me the hammer’. Poi ho fatto l’infermiere e quando il medico prescriveva una pastiglia te lo diceva in italiano, perché se te lo diceva in inglese, ‘tablet’, rischiavi di somministrare al paziente un iPad con un bicchier d’acqua. Poi ho fatto il comico con due colleghi che parlano a mala pena l’italiano! Il problema delle lingue estere non si è mai posto. E’giusto imparare l’inglese, però se decidi di fare l’architetto a Manchester devi studiare anche la matematica, la fisica, la geotecnica, non solo l’inglese. Se no arrivi là, e ti chiedono: “Are you able to build a bridge?” tu rispondi “Yes, I speak english!”. Al di là delle battute e della mia invidia la domanda è: cosa è successo, perché siamo in confusione e non sappiamo più cosa chiedere che venga insegnato? E’ venuta meno la fiducia tra i genitori e la scuola, anche in questa scuola che è nata da un’idea e da uno sforzo creativo ed economico di genitori?”

Silvano Petrosino: “Noi abbiamo una visione dei ragazzi che è riassunta dall’immagine della scatola, che devi riempire. Non è così! Noi abbiamo un inconscio che è stranissimo. Quando metti una cosa nella scatola non sai cosa produce. Pensi che per sovrapposizione la scatola si riempia, ma non siamo fatti così. Per esempio, se in questa scatola metti tanto inglese non puoi mettere tanta storia dell’arte, tanta letteratura. Non abbiamo fiducia nella nostra esperienza e pensiamo che qualcun altro ci deve venire a dire cosa dobbiamo fare. Per esempio: cosa si fa d’estate? Non si fa niente. Si va al mare, ci si bacia e si mangia il gelato. I migliori tra noi leggeranno Tolstoj. Mica vai a fare un corso di inglese! In Cattolica c’era un manifesto con due ciliegie rosse e uno slogan: ‘due lauree sono meglio di una’. Poi ti viene l’idea ‘forse tre…’. Non si può vivere così. Non dobbiamo educare i nostri figli a vivere così, gli dobbiamo lasciare gli spazi vuoti dove si possa sviluppare quella macchina sorprendente che si chiama noia, vuoto. Non il tutto pieno. Certo che in quel vuoto può entrare chiunque, ma per paura che entri chiunque non possiamo riempirlo noi. Si chiama avventura umana”.

Giacomo Poretti: “Quali possono essere gli strumenti che possiamo adottare per incamminarci su questa strada? Cosa si può fare affinché non si riempia così la scatola dei nostri ragazzi? Come bisogna comportarsi affinché i nostri figli rifrangano la loro luce?”. 

Silvano Petrosino: “Il concetto di esperienza è semplice da capire: noi non siamo solo dei viventi, come il gatto e il topo. Come loro noi veniamo alla vita senza deciderlo, ma non diventiamo uomini senza deciderlo. Ma il decidere è legato alla questione dell’esperienza, alla profondità dell’esperienza. Quando stai per mangiare una lasagna puoi dire ‘non è come quella di mia mamma’, oppure: ‘mia cognata la fa peggio’ o ‘sono vegano’ o ancora ‘sono in dieta’: non sto solo mangiando la lasagna, sto facendo moltissimo di più! L’esperienza è una cosa strana, è una ‘aggrovigliata trama’ perché, nel rapportarci alle cose, non lo facciamo direttamente ma attraverso paure e aspettative, ricordi o situazioni. Per cui la lasagna non è solo la lasagna, ed io dico sempre che bisogna educare i bambini, prima di mangiare, a fare un segno di croce o, per chi non ci crede, a dire grazie alla mamma. Perché quando mangi un piatto di pastasciutta mangi anche il lavoro di tua madre, quello di chi ha raccolto il pomodoro… Nessuno darà più a tua madre quei 15 minuti che ha usato per preparare gli spaghetti. Quindi, cosa dobbiamo fare? Di che cosa ha bisogno un figlio? Che il papà e la mamma si vogliano bene. Come capisce un ragazzo come trattare una donna? Da come il papà tratta la mamma, ed è molto positivo. Se detesti tua moglie, il figlio coglie questo. Non si bara con i figli! Dobbiamo dargli da mangiare, ma bene, con la tovaglia, in un luogo bello, silenzioso, con il bicchiere, dicendo che il barolo è diverso dal barbaresco! Bisogna farli leggere bene! Che libri consiglio? I classici. Noi dobbiamo educare i figli al funzionamento del mondo, e poi dobbiamo fargli il regalo più bello, cioè educarli al fatto che c’è dell’altro. Questo altro, ad un certo punto si chiamerà Dio. Cos’è l’uomo? E’ colui che fa esperienza che c’è dell’altro”.

(Luca De Simoni)