Qualche giorno fa mi è capitato tra le mani un vecchio libro del 1977, di Teresio Bosco. Sapevo che si trattava di un libro scolastico (delle scuole medie) per l’educazione civica, destinato a studenti di 11-13 anni. Dopo averlo sfogliato e letto, sono rimasta colpita per tanti motivi; forse è possibile accennarne almeno tre.
Primo: la struttura, la scelta stilistica del libro (probabilmente in linea con le consuetudini del tempo?): otto capitoli, ognuno suddiviso in quattro o cinque paragrafi, che sostanzialmente ripercorrono la storia del mondo (dal punto di vista umano), dai Fenici al presente (gli anni 70). Ogni capitolo è introdotto da un esergo: una poesia di Alekos Panagulis, un motto di Kennedy o Einstein, l’estratto di un tema di un bambino di 9 anni di Milano. Nessuna immagine, niente mappe, schemi o grafici, nessuna “espansione online”, come vengono chiamate ora le appendici e i supporti multimediali esterni al libro (va bene: nel ’77 non c’erano, ma ora che ci sono li utilizza qualcuno?). Tutto e solo testo, e mezza pagina prima dell’inizio di ogni nuovo tema, intitolata “chiave di lettura”, per presentare in poche righe ciò che si sarebbe trovato nelle successive. Già questo, se paragonato ai libri di testo degli ultimi anni, appare molto anomalo, così che spontaneamente ho pensato: quanta fiducia negli studenti, nella loro capacità di comprensione!
Questa anomalia, a pensarci meglio, ha però tutti i tratti di qualcosa di molto normale: non è forse vero che le librerie sono tutt’oggi piene di scaffali di romanzi e narrativa, e che proprio questi sono i libri che ciascuno acquista per puro piacere e che ricorda, in qualche caso, come letture decisive per la propria vita, per la propria cultura? Eppure non vi sono figure ed istogrammi nel Giovane Holden o nei Fratelli Karamazov. I testi che oggi vanno di moda nelle scuole sono ricchissimi, pieni di tutto, eppure spesso viene da domandarsi per chi siano veramente fatti. Rispondono davvero al desiderio (degli studenti) di scoprire, capire, di entrare in rapporto con una o l’altra materia di cui quelle pagine dovrebbero farsi — seppur limitato — strumento? rispondono all’esigenza (degli insegnanti) di avere un supporto per introdurre gli studenti al mondo che ciascuna disciplina è?
Senza volerci addentrare in considerazioni che riguardano l’editoria scolastica, su cui da poco sono state fatte osservazioni interessanti e precise, la prima impressione su molta parte dei manuali scolastici è però quella di una ondivaga destinazione, così che per voler attecchire su tutti, alla fine sembrano non essere fatti per nessuno. L’opposto di quel testo un po’ datato di educazione civica, nel quale tutto, dalla struttura di cui si è detto ai contenuti, al linguaggio utilizzato, sembra pensato e progettato con attenzione per lo scopo, per dire qualcosa in modo fruibile (da studenti di quell’età) ma anche fondato, senza aggiungere spiritosaggini per cercare qualche appiglio (ammesso che funzioni) nei ragazzi.
Secondo: quegli otto capitoli sulla storia del mondo raccontano, di fatto, otto grandi storie, che evidentemente l’autore riteneva simboliche, utili all’insegnamento della materia. Dalle navi di Cristoforo Colombo all’India di Gandhi con la marcia del sale, dalla rivoluzione di Budapest ’56 al colonialismo africano per gettar luce sulla vita del “Terzo Mondo”; gli anni del regime nazionalsocialista descritto con gli occhi dei giovani fratelli Scholl, cuore della Rosa Bianca, o la storia e le parole di Sandro Pertini. O ancora i capitoli conclusivi sulle Olimpiadi, sui progressi (e le speranze) della medicina e sui progressi (e le preoccupazioni) delle “grandi macchine del futuro”. Nessuna traccia di quiz, nessun elenco di articoli della Costituzione. Com’è possibile? La domanda che questo piccolo testo mi ha sollevato è stata proprio questa: perché oggi non esistono più libri (di scuola) simili? Libri che raccontano storie: non semplicemente fatti, ma storie vere. E se ci fossero, come sarebbero accolti dagli studenti?
Anche qui le implicazioni sono tante e delicate. Se è vero che il cuore dei ragazzi è sempre lo stesso, come spesso si sente dire, è anche vero che sarebbe miope non accorgersi di una disabitudine o di una diseducazione ad imparare le cose in quel modo: il modo di una storia, di intrecci di storie e relazioni umane che hanno dentro un significato che si può interpretare, capire e poi astrarre, fare proprio. Un significato che nessun CD-ROM allegato al manuale potrà mai offrire, una capacità di astrazione che nessun software può raggiungere. AutoCAD è utilissimo per disegnare e gestire il progetto di una casa: ma chi ci dà la capacità di immaginare la casa da disegnare? Se dal primo giorno di scuola vengono offerti manuali pieni di “istruzioni per l’uso”, è più difficile allenarsi ad ascoltare storie, a sorprendersi immersi in una tradizione dalla quale può nascere anche una capacità creativa. Così, sfogliando il capitolo sulle “conquiste dei mondi”, ci si può domandare: che cosa c’entra Houston e l’allunaggio del ’69, a cui sono dedicate un po’ di pagine, con l’educazione civica e l’insegnamento ad essere buoni cittadini? Nulla. Oppure tutto!
Alasdair MacIntyre, filosofo scozzese contemporaneo, ha affermato: “Noi sogniamo in forme narrative, fantastichiamo in forme narrative, ricordiamo, presagiamo, speriamo, disperiamo, crediamo, dubitiamo, pianifichiamo, correggiamo, critichiamo, costruiamo, chiacchieriamo, impariamo, odiamo e amiamo attraverso forme narrative”. È paradossale: proprio ciò che più si desidera (raccontare sé, conoscere gli altri attraverso la loro storia), proprio queste forme narrative sembrano aver fatto capolinea nella gran parte delle stazioni dell’educazione. Anche nel caso della letteratura questo viene spesso notato: domina l’idea che ciò che bisogna fare è analizzare una narrazione, non capirla e farsela piacere, eventualmente. Che cosa si sostituisce a quelle forme narrative, quando scompaiono? MacIntyre ne parlava per mostrare come una cultura di teorie abbia rimpiazzato una cultura di storie. Ma questo sembra anche poco. Magari il contrario delle storie fosse (solo) una teoria: una teoria può ancor bene veicolare una verità, un significato. Forse, tra le diverse risposte possibili, quella che adesso gode di una certa rilevanza è qualche cosa che è tornata ad assomigliare alla sua origine, lo storytelling. La conoscono bene i pubblicitari l’importanza di “raccontare storie”: non è un caso se negli spot degli ultimi mesi — soprattutto quelli che hanno ricevuto maggiore approvazione — viene presentato in qualche modo sempre un pezzetto di vita: un ideale, un valore, le immagini di un’esperienza, che solo alla fine, in modo quasi impercettibile, tradiscono il nome del prodotto.
“Posso rispondere alla domanda ‘Che cosa devo fare?’ solo se sono in grado di rispondere alla domanda preliminare: ‘Di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte?'”, scriveva ancora MacIntyre. Forse la grande differenza tra storia e storytelling, pure legati da una vicinanza linguistica, è questa: lo storytelling non chiede nessuna appartenenza, nessuna relazione e nessuna continuità; propone un’esperienza, ma non chiede di imparare a leggere l’esperienza, di generare nessun giudizio di valore.
Tra i motivi che di quel manualetto anni 70 mi hanno colpito ce n’è un altro, il primo e più immediato: il titolo. Il libro si chiama Il mondo mia patria. Niente “cittadinanza nazionale o globale”, “organismi internazionali”, “norme costituzionali”. Solo (si fa per dire…) “mondo”, “mia patria”. Bizzarro, se paragonato alle scelte degli attuali manuali simili: La Costituzione siamo noi. Per la Scuola elementare, si intitola uno. Sarebbe bello ricordarsi che prima di essere la Costituzione, siamo qualcos’altro. E pensare che non c’è infografica, elenco di articoli costituzionali che possa sostituirsi alla partita — molto più appassionante e personale — di costruire una storia e appartenervi; di percepire, come ha scritto e musicato De Gregori, che “la storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso. La storia siamo noi, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare. La storia siamo noi, siamo noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere”.