Sofia, la piattaforma Miur per la gestione della formazione, ha aperto i battenti il 22 maggio; da lì passerà obbligatoriamente il flusso della formazione, obbligatoria con la legge 107, per i docenti di ruolo, mentre il Fit, il percorso di formazione che  sostituisce il Tfa, si avvierà per coloro che avranno superato il concorso del 2018 solo se gli aspiranti alla professione docente, cioè alla futura entrata in ruolo nella scuola statale, avranno maturato 24 Cfu in materie pedagogiche, corrispondenti a 600 ore di lavoro (in presenza, laboratoriale, ecc).



Un qualche addetto alla comunicazione al Miur ha un certo senso dell’ironia, bisogna ammetterlo; dopo il Fit, che “ti mette in forma” prevedendo tre anni di tirocinio (con tanto di supplenze — ma non si era già risolto il tutto con i 90mila assunti della Buona Scuola? O forse costoro non hanno gradito e il Miur ha raccolto il loro, come altri, grido di dolore?) nella scuola, il docente farà parte dell’élite dei Sofia (una trascrizione fonetica di sophia, ma la semplificazione è l’essenza della comunicazione), i saggi che sono autorizzati, a paga piena, a dispensare la loro saggezza agli studenti.



E qui le acque si dividono ulteriormente, superando persino quella di Dio con Mosè; chi abbia avuto la malaugurata idea di essersi già laureato, o abbia già presentato il proprio piano di studi senza essere così lungimirante da prevedere come diventare Fit, e quindi non abbia inserito già i 24 Cfu pedagogici, dovrà procacciarsi da sé le 600 ore di formazione pedagogica, certo non gratis, visto che studiare all’università non fa parte del percorso di istruzione garantito dallo stato a costo zero, o quasi, per gli studenti. Quindi questi futuri docenti probabilmente sborseranno, in tempo e denaro, l’equivalente di poco di più di un terzo di un anno di corso universitario, per poi essere impegnati per tre anni nel percorso Fit. Di questo passo, un aspirante docente di oggi deve avere una motivazione all’insegnamento decisamente molto elevata, e dei genitori disposti a mantenerlo/a, sembrerebbe, fino al 2024



Ma per tutti gli altri, sull’altra sponda, il Dio benevolo ha disposto i meccanismi di transizione. Coloro che sono abilitati ma non nelle Gae (i cosiddetti docenti di II fascia delle graduatorie di istituto) pagheranno lo scotto di una spolverata di nozioni didattico-pedagogiche e andranno al terzo anno del Fit (quello che attualmente sarebbe l’anno di prova ). Per i non abilitati (i docenti di III fascia e oltre delle graduatorie di istituto), basteranno tre anni di servizio per un’altra scorciatoia; concorso leggero e poi salto al secondo anno del Fit.

Un dato, fornito in una relazione tecnica di un emendamento al DL 50/2017 per gli aumenti dei finanziamenti per l’incremento dell’organico dell’autonomia, appare qui interessante; più della metà degli iscritti in Gae ha meno di 12 punti, corrispondenti ad un anno di anzianità di servizio, e quindi è ben lontano dai tre anni di servizio richiesti a coloro che nelle Gae non sono iscritti. Meccanismi di transizione che ancora una volta premiamo non l’esperienza sul campo del docente, ma la burocratica registrazione in un elenco.

Se è pur vero che insegnare per uno, due, tre o più anni senza che il servizio del docente venga valutato dal dirigente scolastico (ipotesi certamente del tutto decaduta, alla faccia degli scudi levati contro il “preside-sceriffo”), dal collegio docenti (mai contemplato se non per la delicata assegnazione del bonus ai colleghi), e ovviamente demandata quindi al numero di giorni di servizio prestato, sembrerebbe comunque ragionevole che una certa frequentazione delle aule scolastiche possa aver dato al docente precario un po’ di polso, di quel senso della realtà scolastica, in bene e in male, che consentono allo stesso docente di essere più efficace nell’esercizio della sua pur precaria professionalità, ma tant’è. Chi non si è inserito nelle Gae prima del 2006, anno della trasformazione delle graduatorie di reclutamento in graduatorie ad esaurimento, diventerà Fit un po’ più velocemente degli altri, ma non verrà assunto “secondo le normali procedure”, così come i docenti delle Gm, le graduatorie di merito, semplicemente per scorrimento nel consueto “equo” meccanismo del fifty-fifty (metà dalle Gae e metà della Gm)?

Ma se più della metà degli iscritti alle Gae ha meno di un anno di servizio, dopo 11 anni dalla chiusura delle stesse, che interesse potrebbero avere, in moltissimi, ad entrare nel mondo della scuola statale? Forse nessuno, ma ciò non toglie che si presupponga un loro diritto, prelativo rispetto a coloro che non sono abilitati, e che invece un anno di Fit, il secondo, lo dovranno scontare.

Tutto quando detto è funzionale all’immissione in ruolo, ma esiste un’altra possibilità, per quanto minoritaria e raramente oggetto di una scelta consapevole: l’insegnamento presso una scuola paritaria; se il percorso è di formazione ai fini dell’entrata in ruolo, cosa succede al docente di fresca laurea che più frequentemente di altri è assunto in una paritaria, causa deflusso di un collega nella scuola statale?

Le condizioni previste per il docente “aspirante paritario” nel decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale in data 13 aprile 2017, capo IV, sono, a prima vista, eque. Cominciamo dalla più  inutile: chi ha completato il percorso di specializzazione può insegnare nella paritaria (art. 1) ,cioè potrà lasciare lo Stato, se lo desidera, per passare nella paritaria, un caso statisticamente irrilevante. Appare più interessante quanto previsto per chi lavora o lavorerà in una paritaria; chi ha un contratto di almeno nove ore e ha prestato servizio per almeno tre anni in una paritaria non deve superare il concorso, e può accedere al percorso di specializzazione a queste importanti condizioni, che danno tuttavia adito ad ulteriori interrogativi:

1. Il docente deve superare un test di ammissione dell’università perché non farà il concorso; questo test verrà indetto con quale frequenza, quella biennale del concorso? Sembrerebbe di no, visto che si fa riferimento ai fabbisogni della scuola paritaria. Ma su che base verrà fatta la rilevazione di tali fabbisogni della scuola paritaria? Il numero degli iscritti complessivi a livello nazionale, o per ambiti regionali, o per computo del fabbisogno di docenti per una determinata classe di concorso? E chi si occuperà della rilevazione di questi dati?

2. Il docente deve sostenere tutti i costi della formazione e non verrà retribuito nel corso del Fit, e visto che dovrà certamente prestare servizio nel corso del terzo anno, lo potrà fare nella scuola dove lavora con regolare contratto di assunzione “purché detti contratti siano retribuiti sulla base di uno dei contratti collettivi nazionali di lavoro del settore”?

3. Il docente dovrà completare il percorso di specializzazione nei tre anni previsti, quindi senza la possibilità della sospensiva prevista per il percorso Fit diciamo”ordinario”? e se non ci riuscisse, deve vedersi revocare il contratto di lavoro? Oppure si potrà semplicemente reiscrivere? Dall’inizio?

4. Il docente verrà accolto nel percorso di specializzazione in condizione di “soprannumero”, cioè se ci sarà posto per lui/lei? E se non ce ne fosse, e quindi non potesse intraprendere quel percorso di formazione, cosa farà di lui, o lei, il suo datore di lavoro? Lo manterrà in servizio, visto che non ha potuto accedere al corso di specializzazione, cosa che accadde nel lungo periodo in cui non erano previsti percorsi di abilitazione, forse una causa non secondaria dell’attuale caotica situazione di norme transitorie che si susseguono alla riforma della formazione docenti?

Dulcis in fundo, vale la pena citare per esteso l’articolo 6:

“6. Il possesso del titolo di specializzazione di cui al presente articolo non dà diritto  ad agevolazioni o al riconoscimento di titoli nell’ambito delle procedure concorsuali  di cui al presente decreto”.

Quindi chi sceglie il percorso di formazione per la paritaria dovrà poi “rifare” lo stesso percorso Fit? Concorso compreso? La risposta è sì. Niente Fit, e niente Sofia.

Più che di condizioni eque, verrebbe da dire che si tratta di condizioni da capestro, che seguono la logica della separazione fra scuola statale e paritaria, del tutto aliena allo spirito della legge Berlinguer sulla parità del 2000, e che sono degne del miglior ricorso.