Caro direttore,
mi permetto una breve riflessione in margine alla preziosa intervista rilasciata da Emanuela Andreoni Fontecedro e pubblicata lo scorso 29 aprile, proprio su queste pagine.

La denuncia circa il fatto che i paesi europei abbiano tradito la propria identità culturale, con tutto quello che ne consegue, scoraggia e avvilisce. Senza ancorarsi al passato, una società non cresce. Di qui “la necessità di iniziare la cultura umanistica con lo studio del latino a partire dalla secondaria di primo grado”. 



Parlo da docente di lettere proprio nella scuola secondaria di primo grado: per anni ho svolto corsi opzionali di latino a ragazzi di seconda e di terza. Oltre alle interessanti note della professoressa, vorrei sottolineare un altro elemento che mi sembra integrarsi positivamente con quanto emerge nell’intervista. Insieme alla prospettiva linguistica che prevede, nei corsi, la messa a confronto tra italiano, lingua analitica e latino, lingua sintetica, mi sembra che l’impatto con il latino possa anche offrire ai ragazzi di 12 e 13 anni l’opportunità di “brandire” finalmente lo strumento della ragione. Se “il fascino del mistero, del segreto costituisce — come osserva la professoressa — un primo appagamento a una sana curiosità”, misurarsi con il testo, sia pure semplice, di una lingua flessiva, mette in gioco negli studenti un’attrattiva senza paragone. Una volta acquisiti infatti i primi rudimenti del latino con il supporto/confronto degli elementi di sintassi della frase e sintassi del periodo che si presuppone siano stati svolti dai rispettivi docenti durante le ore curricolari di italiano, arriva per i ragazzi il momento tanto atteso — e forse anche temuto — di cominciare a tradurre qualche frase semplice o qualche breve testo tratto, come suggerisce l’Andreoni, da “favole, miti, leggende che il patrimonio della scrittura europea tramanda”. 



Ma è proprio quando i ragazzi iniziano trepidanti a cimentarsi col testo, che succede qualcosa di imprevedibile: i più bravi fanno… cilecca! Chi cioè ritiene di avere già capito come funziona, prende le cantonate più grosse. Quanti invece affrontano il testo più disarmati o sguarniti, più umilmente disposti a seguire le indicazioni precise e puntuali di chi guida, è più frequente che raggiungano con soddisfatta sorpresa qualche risultato. 

Non è a caso che ho parlato di “brandire” la ragione: rendersi conto della realtà (di una frase, nella fattispecie) secondo la totalità dei suoi fattori, esige infatti un rigore cui i nostri ragazzi non sono più educati: piegarsi al dato è un esercizio che li trova del tutto impreparati; pietrificati nel fissare ogni singola parola, dimenticano la prospettiva rivelatrice che si cela nello sguardo posto all’intera frase. 



Così il gruppo si divide ben presto tra quelli che accettano la sfida e quelli che invece gettano la spugna. Insomma: chi si apre, traduce e chi si chiude, rinuncia… Un uso corretto della ragione emerge infatti all’esperienza come apertura del tutto scevra da pregiudizi. Chi non è “povero”, difficilmente è curioso; resta così accanitamente aggrappato a quello che già sa o presume di sapere. E tuttavia, prendere sul serio la traduzione sbagliata consente di riaprire la sfida e di rimettere in gioco l’intero gruppo, che sarà indirizzato ad “argomentare” circa il perché la soluzione proposta da un compagno debba considerarsi non adeguata, non “ragionevole”: così facendo potranno più facilmente emergere quali fattori della realtà-frase siano stati trascurati o elusi. 

Se l’educazione è una passione irriducibile per fare, con l’altro — insieme e consapevolmente — un cammino ragionevole di conoscenza (cfr C. Wolfsgrüber, “Educare argomentando: una passione per la ragionevolezza”, in Argomentare per un rapporto ragionevole con la realtà, Fondazione per la Sussidiarietà, Milano, 2017), risulta evidente — anche tra uno sparuto gruppetto di tredicenni — cosa voglia dire che ad essere in gioco non è più solo la scuola, ma la tessitura paziente di un rapporto tra uomini. A beneficiarne, quindi, insieme al latino delle nostre radici, sarà anche la ragione il cui ruolo prezioso riguarda la possibilità stessa di essere uomini.