Insegnare a scuola la storia? Un bel problema, solo per il fatto che alle superiori con 2 ore (3 solo in alcune classi dei licei) alla settimana, provare a far acquisire i fatti, individuare le loro relazioni, introdurre i nessi causali e concausali, privilegiare la dimensione geografico-spaziale, aprire ai contenuti ideali o ideologici, proporre elementi della vita materiale, individuare la dimensione istituzionale e sociale degli organismi politici e approdare agli aspetti prettamente economici, non è cosa semplice.



Molti docenti, vista la complessità della disciplina, si accontentano di un taglio manualistico, che toglie le castagne dal fuoco e permette di far dire ai presidi che “basta studiarla”. I libri di testo oramai sono pressoché uguali, frutto della mano livellatrice delle redazioni delle case editrici, con l’eccezione del Medioevo, che ancora subisce tagli spaventosi e interpretazioni totalmente legate al presente, prive quasi del tutto di profondità storica. Con il risultato che l’età di mezzo risulta per molti versi ancora orfana di seri divulgatori e di studenti informati.



Un altro punto dolente riguarda la storia contemporanea, schiacciata sul 900 per volontà ministeriale sin dai tempi di Luigi Berlinguer e di una sinistra, allora ancora post-comunista, che privilegiava la contemporaneità in quanto tempo e luogo privilegiato in cui divulgare lo sviluppo della rivoluzione proletaria e della liberazione dei popoli. Fu un’operazione del tutto ideologica che separava gli sviluppi novecenteschi dalle radici ottocentesche, per adempiere in parte ai dettami marxisti dell’inglese Eric Hobsbawm. 

Ora il XIX secolo a scuola, secondo le indicazioni nazionali, si svolge sino ai governi della Sinistra storica e il periodo crispino e il cambio anno vede l’aprirsi del 900 con l’età giolittiana. Una scelta arbitraria che per il piano nazionale, spezza in due il pieno sviluppo dell’Italia liberale, mentre lascia indietro la nascita della Germania, e separa Bismarck dal nazionalismo pangermanico di Guglielmo II. 



Il problema del ritardo con cui gli studenti e i docenti arrivano a trattare la seconda metà del XX secolo sta proprio qui. Dovendo introdurre la crisi della Grande Guerra i docenti devono necessariamente ripartire dalla nascita delle due “giovani nazioni”, per cui ripetono due volte lo stesso programma, alla fine della quarta e all’inizio della quinta. Invece, come sostengono in molti, è sufficiente lasciare in quarta il Risorgimento italiano e riprendere il nuovo anno con una trattazione un po’ celere, ma unitaria e organica, della fine del secolo XIX in Europa e d’un balzo, non tralasciando colonialismo, nazionalismo e imperialismo, introdurre la crisi mondiale del 1914-’18. 

Un’unità di apprendimento efficace e unitaria, che è anche possibile dividere in due parti, per facilitare la valutazione, con buona pace dei seguaci e infatuati del “Secolo breve”. Se ovviamente si tratteggiano in modo sintetico i fatti salienti delle vicende strettamente belliche (ci sono manuali che dedicano troppo spazio a questo aspetto), senza però omettere le reali caratteristiche militari del conflitto e dei vari fronti di guerra, sia del primo che del secondo conflitto mondiale, non diventerà impossibile esaminare con agio il secondo dopoguerra in Italia, in Europa e nella dimensione globale. In questo caso la dimensione politica e quella economica, sia nell’Europa degli anni Trenta che nella costruzione dello spazio atlantico, dovrà avere un’attenzione particolare. 

Nel trattare la seconda metà del XX secolo bisogna avere l’avvertenza di non strafare. È necessario fare delle scelte, perché il rischio del “polpettone” incombe dopo ogni lezione. Gli studenti infatti fanno particolarmente fatica a trovare i nessi tra fatti particolari, europei o asiatici, e la dimensione complessiva, perché non abituati — sembra ovvio, ma non è scontato dirlo — alla trattazione planetaria dei fatti e delle ideologie novecentesche. 

Meglio infine non seguire le tendenze in auge in molti libri di testo di recente redazione: trattare l’estrema contemporaneità, dalla prima guerra del Golfo all’Isis. È un eccesso da cui non farsi tentare, perché, com’è noto a tutti, c’è molta differenza tra cronaca e storia.