Il ritratto dei cosiddetti “millennials”, i giovani di età compresa tra 15 e 33 anni, che emerge dall’ultimo rapporto realizzato dall’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica di Milano in collaborazione con Fim-Cisl, è quello di una generazione in cui dominano sconforto e disillusione. Le statistiche allarmanti sulla disoccupazione giovanile aggravano il senso di precarietà e di frustrazione che pervade molti giovani e contribuiscono a delineare un quadro cupo di un paese che non riesce ad offrire prospettive di crescita professionale e personale.
Nell’analizzare e commentare questi dati molti esperti tendono ad esprimere giudizi contrapposti; c’è chi attribuisce ogni responsabilità ad una politica miope e poco lungimirante, e chi colpevolizza invece i giovani, tacciandoli di svogliatezza e disinteresse. Una agenzia di collocamento li descrive così: “Tendenzialmente non vogliono fare sacrifici. Ai colloqui c’è chi si lamenta perché il posto di lavoro è troppo lontano da casa, chi si presenta con la madre, chi non si informa neppure sul tipo di impiego ma vuole solo sapere quanto guadagnerà, chi arriva in ritardo, chi rifiuta per principio turni perché troppo faticosi, chi rinuncia perché il lavoro comincia a luglio e comprometterebbe le ferie”. Secondo Giovanni Siri, professore di psicologia nell’Università San Raffaele di Milano, le famiglie hanno viziato troppo questi ragazzi che credono che tutto sarà loro concesso “e poi vanno a sbattere contro un mondo del lavoro diverso da quello che si aspettavano. Scoprono che lavorare significa sacrificio, compromesso, ma nessuno glielo aveva spiegato”.
“L’Italia è la più grande fabbrica di Neet d’Europa (not in education, employment or training), cioè ragazzi che non studiano e non lavorano, perché il nostro è uno dei paesi avanzati che meno ha investito in politiche attive per il lavoro, ricerca sviluppo e innovazione rispetto al resto d’Europa” denuncia invece Alessandro Rosina, professore di demografia nella facoltà di economia dell’Università Cattolica di Milano. Tuttavia il 30 per cento dei Neet italiani ha dichiarato di non aver intenzione di cercare un impiego. “La metà dei disoccupati e i tre quarti degli inattivi sono persone scoraggiate, che sanno di non avere la formazione giusta per essere selezionati dalle aziende. Uno su dieci sarebbe pronto ad accettare qualsiasi lavoro, ma non lo cerca perché convinto che non ci siano sbocchi” rivela il Rapporto Giovani 2017.
Viziati e pigri oppure prostrati da un sistema d’istruzione e del lavoro che non sa valorizzare le potenzialità e premiare il merito? I pareri sono divergenti, ma nel ravvisare le responsabilità sono tutti allineati e sul banco d’accusa finiscono di solito la politica, le istituzioni, la scuola o la famiglia.
Stranamente, l’informazione non è mai stata chiamata in causa. Eppure non occorre essere psicologi per comprendere l’effetto deprimente che può avere lo stillicidio quotidiano di notizie negative — se non drammatiche — sull’umore e sul comportamento di intere popolazioni. Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, innescato dall’inchiesta Mani pulite, non ha rappresentato uno spartiacque solo per il mondo politico ma anche per quello della comunicazione. La logica del bipolarismo ha portato ad un imbarbarimento e ad una spettacolarizzazione dei dibattiti politici, trasformatisi in risse televisive con insulti e attacchi personali, volti a demolire l’avversario politico, e non più basati sul confronto e sui contenuti. Da allora è andata sempre più consolidandosi la tendenza ad utilizzare i mass-media per alimentare malcontento, sfiducia e indignazione. Si sono moltiplicati i programmi di denuncia sociale in tv e diversi quotidiani dedicano ogni giorno intere pagine a scandali veri o presunti. Segnalare corruzione, disservizi e inefficienze è ovviamente un dovere dell’informazione ma quando questa tende a presentare solo gli aspetti più deteriori del paese, senza contrapporvi le eccellenze, proietta una visione distorta della realtà.
“Le buone notizie non tirano” affermano gli addetti ai lavori per giustificarsi. In un’epoca in cui la velocità delle notizie è più importante della loro qualità ed esattezza, sanno che il titolo dell’articolo è determinante per decretarne il successo in termini di visualizzazioni, condivisioni sui social network e commenti. Non importa se poi c’è una netta discrepanza tra titolo e contenuto — che molti nemmeno leggono —, l’essenziale è che sia in grado di catturare l’attenzione e di suscitare indignazione.
Prendiamo, ad esempio, una vicenda riportata recentemente da molti quotidiani e condivisa massicciamente sui social network scatenando valanghe di commenti rabbiosi e sdegnati: “In Italia neanche un posto da bidella, ad Harvard guido la banca dei cervelli: Sabina Berretta, catanese, dopo la laurea provò a entrare in università come custode. Ma non fu assunta”. Titolo e sottotitolo mirano evidentemente a convalidare la tesi secondo cui in Italia non esiste meritocrazia mentre all’estero sanno valorizzare i “cervelli” che noi facciamo fuggire. Ma basta leggere l’articolo per rendersi conto che la verità è ben diversa, infatti nell’intervista la Berretta dichiara: “Io ebbi fortuna. Vinsi una borsa del Cnr per studiare un anno all’estero. Scelsi il Mit di Boston. Andò bene: scaduta la borsa, ero stimata e mi tennero”. In pratica fu l’Ente di ricerca italiano a permetterle di studiare e poi di trovare lavoro all’estero.
Questo è un esempio di come alcuni media manipolano le notizie accusando poi i social network di diffondere “fake news” e di aver creato il fenomeno degli “haters”. Un po’ come tirare il sasso e nascondere la mano! Scandali, soprusi, disfunzioni, un martellamento continuo volto a demolire ogni aspetto del nostro paese e creare risentimento. Non bisogna certo nascondere il malcostume ma non si può nemmeno generalizzarlo, occorre ridimensionare gli episodi negativi e collocarli nel loro giusto contesto. Non ci sono opportunità di lavoro per i giovani che sono continuamente incoraggiati ad emigrare? Eppure oggi il 15 per cento dei contributi fiscali è versato da lavoratori stranieri e quasi il 20 per cento di nuove imprese non sono gestite da italiani, segno che loro una occupazione in Italia l’hanno trovata. Le nostre scuole e università sono ultime nei ranking internazionali e non sono all’altezza dei paesi più avanzati? Eppure riescono a sfornare “cervelli” richiesti e apprezzati in tutto il mondo. Le cattedre si ottengono solo grazie alle raccomandazioni? Eppure i nostri docenti universitari ottengono prestigiosi premi e riconoscimenti anche all’estero.
L’indignazione è un sentimento che può generare voglia di riscatto e di miglioramento se si intravede la possibilità di porre rimedio all’ingiustizia o al disservizio, ma se viene presentato un quadro disastroso in cui nulla pare funzionare e le istituzioni sembrano composte unicamente da arruffoni incompetenti e corrotti, può generare solo un senso di impotenza, di frustrazione e di smarrimento, che si traduce in lamentele sterili e inutili.
Purtroppo questo è il clima in cui sono cresciute le nuove generazioni. Giovani allevati, formati e informati da genitori, insegnanti e giornalisti che hanno vissuto la disillusione per il crollo degli ideali e delle aspettative riposte nei partiti storici. Le ideologie si sono volatilizzate assieme ai valori e al senso di identità. L’uragano mediatico-politico di Tangentopoli, facendo leva sull’atavica diffidenza degli italiani verso chi detiene posizioni di potere, ha determinato un rifiuto totale verso lo Stato e le istituzioni, giudicati causa di tutti i mali, e allontanato i giovani da un impegno sociale e politico che sarebbe invece prezioso per il futuro loro e del Paese. Gli italiani, esibendo un altro ben noto vizio nazionale, la damnatio memoriae, hanno dimenticato che i partiti della prima repubblica non erano solo centri di malaffare e di loschi traffici, ma avevano traghettato il paese dalla devastazione post-bellica al boom economico. Erano fucine di idee e di cultura, in essi militavano tante persone perbene disposte a lottare e a mettersi in gioco per ciò in cui credevano.
Alle nuove generazioni è stata trasmessa una visione parziale ed eccessivamente negativa della nostra storia recente e non hanno un’idea obiettiva ed equa della situazione attuale del nostro paese. Tutti i leader politici che si sono succeduti al potere negli ultimi decenni hanno lamentato, a turno, il disfattismo dei media, tranne poi usarlo a proprio vantaggio per demolire l’antagonista politico o per giustificare i loro errori. Invocare la persecuzione mediatico-giudiziaria è diventato un comodo espediente per coprire ogni magagna. Ma di fatto un paese senza una informazione ufficiale imparziale e bilanciata è ingovernabile.
Il 39esimo rapporto annuale sulle prospettive, le aspettative e le convinzioni degli abitanti di 68 diversi paesi del mondo, realizzato da Gallup, vede l’Italia ultima per speranza e terz’ultima per ottimismo, e si colloca tra i dieci paesi più infelici del mondo. Una classifica davvero ingiusta per un paese che è tra i più virtuosi in molti campi, tra cui quello fondamentale della sanità e dell’aspettativa di vita dei suoi abitanti, secondo in Europa per volume di esportazioni, primo per l’uso delle energie rinnovabili. Un bell’articolo su Linkiesta sottolinea la responsabilità dei media nell’enfatizzare le cattive notizie e nel creare allarme sociale. Oggi i media hanno iniziato a fare autocritica ed è nata l’idea del “giornalismo costruttivo”, come il blog “buonenotizie” del Corriere, che non significa promuovere un ottimismo cieco, buonista e acritico, ma presentare entrambi i lati di una storia. Tuttavia un recente sondaggio ha dimostrato che quasi il 90 per cento degli italiani ritiene che le notizie riportate dai media mainstream siano manipolate e distorte. Il problema è che ormai sono soprattutto quelle positive ad apparire faziose, autocelebrative e filogovernative. La sfiducia del popolo è talmente generalizzata e diffusa che la notizia di un primato italiano, perfino se sostenuta da dati oggettivi, non viene ritenuta credibile.
“Perché i mass media possano efficacemente pubblicare buone notizie è necessaria la convergenza virtuosa di due elementi: un trattamento giornalistico accurato e sapiente, un pubblico istruito, capace di ragionare e desideroso di approfondire, e non propenso a cercare nell’informazione solo emozioni forti e occasioni di rissa” osserva Annamaria Testa nel suo blog.
La scuola è l’unica realtà in grado di formare questa nuova generazione di lettori avveduti e di giornalisti desiderosi di verità e obiettività, ma per poterlo fare deve innanzitutto combattere l’intrinseco pessimismo che pervade anche il corpo insegnante. Occorre un progetto organico e coordinato che possa ristabilire l’equilibrio necessario per far sì che il popolo italiano ritrovi la fiducia in se stesso, nel proprio paese e nelle proprie istituzioni, presentando finalmente l’Italia nella sua giusta veste non solo come belpaese, custode del più ricco patrimonio culturale e artistico mondiale, ma anche come una delle nazioni più industrializzate, produttive e creative del pianeta. La scuola può e deve creare un humus culturale favorevole che sappia instillare un rinnovato slancio di ottimismo e indirizzare i propri studenti verso i settori italiani di eccellenza per aiutarli a trovare nuovi sbocchi occupazionali in cui esprimere le loro potenzialità e creatività.
“La scuola sta a una democrazia liberale come la salute sta all’organismo umano” sosteneva Tullio De Mauro, grande linguista militante, innovatore e riformatore, tra i politici di un’epoca che ha dato alla luce statisti di grande levatura morale e culturale oggi rimossi dalla memoria collettiva o ricordati con formule insipide e spesso ingiuste. Dovrebbero invece costituire esempi virtuosi per stimolare le nuove generazioni ad impegnarsi in un progetto condiviso in cui la crescita individuale può contribuire al benessere di tutti.