Aspettando riforme di là da venire, anche quest’anno i nostri studenti si cimenteranno con la liturgia dell’esame di Stato secondo gli schemi noti, nel bene e nel male.

Finite le lezioni, è ora iniziata l’attesa, fatta forse di fatalismo, forse di ripassi matti e disperatissimi, finché la macchina della vecchia “Maturità” si metterà in moto il giorno della prima prova di italiano. Quest’anno ho avuto una classe quinta, e oltre a ciò sono stato chiamato in qualità di commissario esterno in un liceo della provincia in cui insegno. Ovvio, quindi, da insegnante di lettere, che in questi giorni mi sia capitato di riflettere e discutere, con i miei studenti o con i colleghi, di quello che un tempo si chiamava tema di maturità, delle sue incognite e dei suoi rischi.



Provo a suddividere il ragionamento partendo da due domande, ponendo l’insegnante al centro e guardando nelle due direzioni: prima domanda: cosa spero che arrivi dal Miur? Seconda domanda: cosa spero che arrivi dai ragazzi, scritto sui fogli protocollo?

Per quanto riguarda le scelte del ministero, negli ultimi anni le cose sono andate per certi versi migliorando: in primo luogo la tipologia A, ossia l’analisi del testo, è stata resa spesso accessibile anche a uno studente che non avesse studiato l’autore in questione. Qui si aprirebbe un problema nel problema: come risolvere la schizofrenia delle indicazioni ministeriali che prevedono di iniziare il quinto anno con Leopardi, e dello stesso ministero che poi propone analisi del testo su autori sostanzialmente contemporanei? Chi insegna, o chi ha relativamente freschi nella memoria i ricordi del suo ultimo anno di letteratura, sa bene che in quinta si arriva tutti in qualche modo a Montale o Saba, mentre l’universo che viene dopo, in primis Calvino, spesso resta sepolto nelle pagine delle antologie rimaste intonse. Quindi noi lasciamo andare nel mondo legioni di studenti che sanno cosa sono i Paralipomeni alla Batracomiomachia, ma che non hanno mai sentito parlare di Pasolini o de Le città invisibili, o di Umberto Eco.



Una soluzione coerente sarebbe iniziare a operare le scelte necessarie sul canone della letteratura nel triennio, per garantire agli studenti del quinto anno (lancio l’azzardo?) di iniziare il Novecento già a settembre, visto che, meglio ricordarcelo, ormai da 18 anni quel secolo è altra cosa da noi!

Soluzione alternativa potrebbe essere proporre all’esame di Stato analisi del testo su autori che con ogni probabilità sono stati incontrati dalla gran parte degli studenti (cosa che di rado capita): Pascoli, Pirandello, il già citato Montale… Invece il Miur sembra aver scelto una terza via, se vogliamo un po’ ipocrita, ma comunque in parte risolutiva: proporre testi di autori poco trattati nelle aule, ma con consegne tutto sommato fattibili, limitate cioè a domande sul testo dato, o a proposte di comparazione libera con altri autori, che lo studente può autonomamente pescare dalla sua memoria.



Anche nel merito della tipologia B, tradizionalmente la più gettonata, ossia il saggio breve/articolo di giornale, pare che qualcosa sia cambiato, se non sul cosa almeno sul come.

Infatti da qualche anno il Miur sembra aver rinunciato ai dossier di documenti chilometrici, che obbligavano gli studenti a letture preliminari sfiancanti, esponendoli poi al rischio concreto del “copia-incolla” sistematico dall’ampia messe di testi forniti. Ultimamente i documenti sono pochi, addirittura due soltanto, e tutti mediamente brevi. In questo modo i ragazzi, oltre a essere facilitati nella lettura, sono obbligati a compiere un’operazione necessaria nella tipologia B, ossia intrecciare, sul terreno dell’argomentazione, i documenti proposti con la propria cultura personale, con i dati in proprio possesso, in un lavoro non facile di sintesi critica dei saperi appresi nel corso del triennio.

Nel merito degli argomenti proposti invece, quasi ogni anno il ministero ci offre, almeno in qualche ambito (i più frequenti: l’artistico-letterario e il socio-economico), la polpetta avvelenata dell’iper-generalismo.

“L’amore”; “L’amicizia”; “Il rapporto padre-figlio”… Sono argomenti che attirano gli studenti come i lampioni attirano le falene, e il rischio di restare scottati è in entrambi i casi elevatissimo. Perché? Perché tanto più ampio è l’argomento, tanto maggiore è il rischio, per un ragazzo mediamente preparato, di perdersi in un “non testo”, costruendo di fatto un collage di luoghi comuni, privo di un’idea centrale forte, e soprattutto privo di argomenti solidi pescati, come già detto, dalla propria cultura personale.

Quest’ultimo punto è utile per traghettarci alla seconda domanda da cui siamo partiti, quella sulle attese nei confronti degli studenti. Meneghello in una delle sue pagine più geniali ricorda come a scuola gli studenti della sua generazione non solo scrivessero in un’altra lingua rispetto al dialetto domestico, ma arrivassero a pensare secondo altri schemi e altre categorie. Il bambino meneghelliano, impegnato nei “pensierini” delle elementari, sapeva che doveva scrivere secondo gli schemi etici e morali propri della Scuola e della Maestra, diversi da quelli della casa e della famiglia, e agiva di conseguenza. È passato più di mezzo secolo, ma in qualche modo questo rischio di sostanziale schizofrenia culturale c’è ancora, e spesso noi insegnanti siamo corresponsabili, se non apertamente colpevoli, di questa situazione.

In sostanza, ciò che ufficialmente si richiede agli studenti, ma che poi raramente li mettiamo in condizione di esercitare, è il tanto chiamato in causa “pensiero critico”. In parole povere: pensare con la propria testa. E i saggi brevi sarebbero delle occasioni ottime per dimostrare come la si pensa su un dato problema “reale”: inquinamento, razzismo, Grande Guerra, superiorità del Decadentismo sul Naturalismo o viceversa… Invece spesso quello che ci troviamo a correggere sono dei testi ispirati a un “politicamente corretto” che leva forza e profondità al ragionamento. Siamo d’accordo, l’inquinamento è una brutta cosa. Ma allora perché si inquina comunque? Il razzismo è esecrabile, giusto. Ma perché continua a serpeggiare nelle nostre case? In altri termini: possiamo davvero ritenere “maturi” ragazzi che sembrano soltanto in grado di affermare l’ovvio, facendo finta di niente su quanto invece sta dietro a quell’ovvio?

Le correzioni che più spesso mi sono trovato a segnalare in penna rossa sui testi dei miei ormai ex studenti di quinta erano fondamentalmente di due tenori: “Non ho capito qual è la tua opinione”; “Hai messo in evidenza il problema. Quali soluzioni proponi?”.

La prima segnalazione è chiaramente più grave. Lo studente, vuoi per paura di esporsi, vuoi per frettolosità o superficialità nel trattare i testi del dossier, si produce nel già citato non-testo, in cui salta di palo in frasca, rinunciando a mettere al centro un’idea chiara, magari scomoda, ma “sua”, da difendere con tutti i mezzi. Nel secondo caso lo studente ha compiuto il primo passo, quello dell’analisi, o se si preferisce della pars destruens, ma si ferma lì, rinunciando ad essere “creativo”, ossia alla sfida di dire la sua, di rideclinare un dato problema secondo il suo punto di vista.

Un po’ di colpa è di noi insegnanti. Nel percorso di studi le occasioni “sfidanti” per gli studenti sono poche, e troppo limitate per diventare una forma mentis, un’abitudine. Le interrogazioni e le verifiche troppo spesso si riducono (semplifico per necessità, ma credo di centrare il problema) alla ripetizione dei contenuti condivisi in classe, per cui sopravvive la perversione per cui lo studente bravo è lo studente in grado di ripetere tutto ciò che si è detto in classe… Il che, tra l’altro, è un principio abbastanza antidemocratico e in fin dei conti fascista della trasmissione della cultura, cosa, questa, che non sembra preoccuparci troppo.

Per fortuna (!) un po’ di colpa credo risieda anche al di fuori della scuola. I nostri studenti sono i figli di un’età post-ideologica, nel complesso disinteressati, o comunque mediamente distanti dalla vita pubblica, e troppo spesso spaventati da quello che a mio avviso potremmo definire la dittatura anarchica dei social. Anarchica perché chiunque può pubblicare ciò che vuole, senza nessun filtro di validità scientifica. Lo vediamo ogni giorno: la piaga delle fake news, delle bufale, delle statistiche inventate, dei fotomontaggi inquietanti sembra averci calato in un presente distopico nel quale paradossalmente non ha più alcuna importanza il criterio di verofalsità di un dato. L’importante è dare. Posto ergo sum, questo sembra essere il paradigma dell’homo digitalis.

Dittatura perché dire le proprie idee significa esporsi al rischio reale e quasi costante dell’attacco virulento, del commento acido, dell’insulto di un mostro digitale, un ecatonchiro senza volto, ma con mille mani pronte a menar fendenti sulle tastiere di altrettanti computer. Già un adulto deve avere le spalle larghe per sopportare certe sfide in punta di mouse, figuriamoci un ragazzo.

Risultato: i nostri studenti preferiscono vivere in un limbo di non-idee, vivono lo spazio del social volutamente al ribasso. Cicciogamer o i video idioti non sono un indice di incapacità o di ignoranza. Sono uno strumento disperato di autodifesa. Noi adulti non siamo in grado di tutelarli, lo fanno loro, come possono.

A ulteriore conferma di questa tesi, il social attualmente più in voga tra gli under 20 non è più Facebook, ma Instagram. Un luogo in cui trionfano le immagini. Un luogo della non-parola, del non-testo. La parola fa paura, le idee sono scomode. Meglio postare l’ennesima foto patinata della serata in disco, o del piatto di sushi mangiato con gli amici, e anche per quest’oggi ho detto al mondo che ci sono, senza correre troppi rischi.

In conclusione, come spesso provo a dire ai miei studenti, lo spazio della scrittura a scuola, lo spazio del saggio breve, è un’oasi tranquilla in cui è possibile e anzi necessario mostrare se stessi senza timori. È una palestra della democrazia in un mondo in cui anche qualche partito sembra invocare la dittatura della piattaforma. Io valuto l’efficacia delle loro argomentazioni, non la natura delle loro idee. E sarebbe meglio che ne approfittassero, finché sono in tempo, perché, purtroppo, poi nella vita adulta non saranno tantissime le occasioni in cui verrà loro chiesta la propria opinione!

In conclusione, caro Miur, spero in argomenti ben precisi, magari scomodi, magari anche politicamente scorretti, ma che obblighino gli studenti a esporsi, a non nascondersi dietro la constatazione dell’ovvio, la bellezza della pace nel mondo, la convinzione che “se ognuno di noi fa la sua parte allora questo mondo potrà finalmente cambiare”, la scoperta sconcertante che evadere le tasse è un danno per lo Stato.

E in conclusione, cari ragazzi, spero che possiate sbilanciarvi, che abbiate il coraggio di dire la vostra, senza preoccuparvi di come la prenderà chi vi leggerà. Perché la sfida reale di quest’epoca non è tra un’idea e un’altra idea, ma tra un’idea e una non-idea.

Il tutto, giusto per completare la lista di desiderata, in un italiano se possibile ortograficamente corretto… Sembra che adesso sia io a rasentare l’ovvio, e invece chi insegna sa bene che non è così. Avere una classe quinta in cui tutti gli studenti elaborino testi senza lasciarsi sfuggire nemmeno un apostrofo o un accento è un lusso che credo capiti a pochi. Ma qui si aprirebbe un nuovo tema, quello del rapporto con la scrittura, e ormai ho abusato della vostra pazienza. Limitiamoci dunque a ricordarci di quanto scriveva don Milani: “Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua”.

In bocca al lupo.

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