L’ecologia, la scienza dell’ambiente e della natura, non è, come spesse volte si crede, una scelta. Elevata al rango di religione ufficiale della modernità – basti pensare al fatto che celebrità, politici e figure pubbliche di tutto il mondo fanno a gara a essere sempre più ecologici; chi si oppone, invece, è considerato un pazzo, un ignorante e, essenzialmente, un retrogrado – si è portati a pensare che dipenda tutto da noi; cioè che noi facciamo o meno la natura. L’uomo è convinto di essere in grado, con le sue sole forze, di arginare la minaccia della natura (e della sua fine) e di trasformarla in paradiso terrestre, crede di essere in grado di alterare la realtà per come è e di trasformarla a suo piacimento, è convinto che la soluzione sia in una sua scelta, cioè in una sua libera adesione (e un conseguente progetto) alla realtà. In altri termini, applica l’idea del self made man alla natura. Ma non è così: anche ad un osservatore casuale e poco attento, appare evidente quanto l’insieme delle cose esistenti sia un dato oggettivo, e cioè esiste e non se può prescindere, non lo può cambiare a suo piacimento, non lo può piegare alle sue teorie. Ma anzi, proprio al suo interno, proprio perché non dipende dal singolo, si gioca la libertà umana. La natura non è una scelta, ma è il luogo in cui si giocano tutte le scelte.



Leopardi tratteggia una natura minacciosa, una natura nemica dell’uomo in quanto tradisce e distrugge ogni promessa di bene, la natura come gabbia – sempre più stringente – della libertà. “O natura, o natura,/ perché non rendi poi/ quel che prometti allor? perché di tanto/ inganni i figli tuoi?” (A Silvia): drammaticamente emerge la discrepanza tra il suo progetto di bene e la risposta che gli viene data, come se fosse una punizione datagli dalla natura stessa. Ma la sua malvagità, lei “che de’ mortali/ madre è di parto e di voler matrigna” (La Ginestra), non sta tanto nel gioco sadico appena descritto, ma nell’essere indifferente all’uomo, la sua spaventosa pericolosità è nel non essere attenta alla specie umana. Nelle Operette morali, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, Leopardi mette in bocca alla Natura stessa questa sentenza: “Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo. […] E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”. L’uomo è lasciato solo in un mondo sterile che lo rifiuta, il luogo destinato all’esercizio della sua libertà è diventato ultimo giudice, è diventato dio inconsapevole e disattento. È l’esaltazione esistenziale del pericolo – ora, in Leopardi, diventato realtà incontrovertibile – della natura. Ma è, umanamente e razionalmente, una posizione insoddisfacente e incompleta. Diametralmente opposta alla teoria leopardiana è quella esposta da Lucrezio nel suo De Rerum Natura: la realtà porta con se la possibilità di provare piacere. In questo prospettiva, la natura non tradisce la promessa di bene in quanto ha in sé il godimento materiale dei beni terreni; è idilliaca perché tutta la ricerca della felicità è da lei interamente contenuta, limitata al mondo materiale. Ricorda il dipinto “Idillio primaverile” di Giuseppe Pellizza da Volpedo: in una cornice bucolica, un gruppo di ragazzi balla in cerchio; in primo piano, separati dagli altri da un albero, un ragazzo pone sulla testa di una ragazza una corona di fiori. La natura è un tutt’uno con la gioia dei giovani, che si può liberamente manifestare proprio perché si trovano in contesto così diverso dalla città. Ciò che la natura produce – i fiori – diventano anche segno effettivo di una tenera effusione amorosa, contenuta ma non per questo meno gioiosa. Anche l’albero che divide internamente il dipinto è segno di una profonda comunione tra l’uomo e la natura: le divisioni possono esserci tra i ragazzi, ma non è intaccata l’unione con il contesto idilliaco. Ma la stessa conclusione del poema lucreziano svela la non totale verità di questa posizione: il sesto libro termina con il racconto e la descrizione della peste di Atene, con la forza distruttrice di un fenomeno che è naturale in quanto non prodotto dall’uomo. Anche la prospettiva idilliaco-materialistica, alla fine, si rivela non aderente alla realtà, non è ancora abbastanza per la realizzazione totale della felicità. 



La poesia Il lampo di Pascoli svela un altro aspetto della natura: l’autore descrive un lampo che irrompe nella note e rivela, per pochi istanti, una casa, la verità del mondo. Attraverso una manifestazione fisica, attraverso la violenta luce di una scossa elettrica che cade a terra, cade ogni simulacro e si apre una nuova strada gnoseologica. Quello che, ragionevolmente, potremmo definire un miracolo, non ci appare come una manifestazione del tutto positiva. La poesia ci colpisce per la sua voluta violenza, mimesis linguistica e sonora del lampo, i climax di aggettivi, la voluta rapidità e sfuggevolezza: sono tutti elementi che non appartengono a un clima idilliaco, che non rientrano nei canoni dell’epifania. Quasi a dire, insomma, che la rivelazione (e di conseguenza il tramite, il “rivelatore”, e cioè la natura) non può essere positiva, non può essere il punto di partenza per un vero percorso conoscitivo orientato alla felicità. Anche perché, sempre Pascoli, vuole scappare dalle “cose lontane” (Nebbia), non vuole aver a che fare con la verità, con un lavoro da compiere verso il suo desiderio e, non a caso, il tramite per questo nascondino è la nebbia, cioè un prodotto della natura che, minacciosamente, prima mostra spaventando la realtà e poi, in modo ancora più devastante, la nasconde per (nostra) troppa ignavia. 



Ne I limoni, Montale racconta di un’esperienza (leggermente) diversa: attraverso un tramite ancora una volta naturale-materialistico, noi riusciamo a scorgere una grande festa, una grande bellezza, troviamo “le trombe d’oro della solarità”. La natura rimanda ad altro. Si compie il miracolo, si crea un’armonia tra l’uomo e lo spazio della sua libertà grazie ad una rivelazione che non rimanda a sé stessa (indicativo, nel già citato componimento di Pascoli, che si scelga una casa – un elemento della realtà, seppur artificiale – come segno della verità), ma rimanda ad un indefinito e misterioso altro. L’epifania è così liberata dal progetto umano, dalla volontà del singolo di autoaffermarsi, e diventa vero punto di partenza di un percorso gnoseologico. Insomma, la natura si rivela idilliaca in quanto rimando ad un mistero, in quanto è segno, cioè esperienza concreta (l’odore dei limoni è emblematico: è un’esperienza così concreta, cosi comune da essere quasi banale) che punta ad altro. Qualunque posizione diversa da questa è ideologica, in quanto forzatura di un’idea sulla realtà, cercando di far prevalere un progetto su un dato oggettivo. Questo è il rischio insito nella contemporanea idea di ecologia e natura: sono diventate il punto di arrivo e non il tramite per vivere, senza censure, il quotidiano.

Gianluca Porta, studente di lettere moderne nell’Università Statale di Milano

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