Niente al mondo è di così evidente paradosso agli occhi dell’uomo come la Natura. Egli conosce tutto di essa, dalla costituzione del filo d’erba alla struttura delle stelle, dal movimento delle maree alle leggi che regolano i fluidi. Siamo di fronte all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo: conoscendo i due estremi, ci illudiamo di conoscere tutto il Creato. L’uomo che studia le divisioni dell’atomo e tenta di ridurre l’universo in continua espansione a qualche complessa formuletta non fa che rispondere all’urgenza di mappare concettualmente tutta la realtà, sì da dominarla a proprio piacimento.
Eppure rimane sempre un margine di imprevedibilità, di incomprensione: più conosciamo la Natura, più questa sembra farsi esponenzialmente complessa. C’è sempre un interrogativo che rimane inevaso. Per quanto l’uomo studi minuziosamente tutte le sue componenti, egli non può non domandarsi: dove va tutto questo? Qual è il fine della Natura stessa? Perché un fine deve esserci; giacché la Natura avrebbe potuto configurarsi in mille altri modi, eppure essa sembra sempre rispondente ad una unità di fondo. Perché, malgrado noi sappiamo esattamente come sia costituito un filo d’erba, non riusciamo a cogliere il senso di fondo della natura, così da dominarla e asservirla alle nostre necessità?
Non si tratta di becero materialismo, altrimenti non si spiegherebbe perché la natura sia così perfettamente ordinata. La fisiologia del corpo umano risponde senza alcun dubbio al principio di causalità efficiente, ma ha anche un “principio ordinatore finale” che lo rende un tutto armonico. È un miracolo che il nostro corpo funzioni, al netto di tutto quello che potrebbe andare storto: eppure, mirabilmente, incredibilmente, miracolosamente, funziona. Perché? Non lo sappiamo, e questa ignoranza ci toglie il sonno. Si tratta di una mancanza che, se soddisfatta, renderebbe la Natura un po’ meno matrigna e un po’ più madre.
Il saggio Islandese di Leopardi, che viaggia nel mondo fuggendo la Natura, si ritrova davanti ad essa: “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”. La Natura abbozza un disegno che l’uomo non riesce a capire; un disegno che risponde al principio della causalità finale – cioè quella teleologica, rivolta ad un fine, che fa sì, come prima dicevamo, che tutto il corpo si armonizzi in una ordinata unità – e che l’uomo cerca avidamente di tracciare da sé per avere tutta la realtà squadernata davanti a sé.
Un disegno che spiegherebbe anche il senso di catastrofi e rivolgimenti naturali, che l’uomo sa perfettamente spiegare, eziologicamente e fenomenologicamente, e tuttavia non riesce a prevedere, come dimostrano il tragico incendio in Portogallo di qualche giorno fa, o il terribile terremoto di Lisbona del 1755. Quando gli Illuministi tentarono di spiegare il senso del terremoto, decisero repentinamente che non esisteva alcuna Provvidenza divina, e ad essa sostituirono il concetto di Progresso. Altro non facevano che tentare di mappare questa realtà incomprensibile.
Una realtà di cui fa parte anche la natura più inospitale, come quella descritta da Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis: “Ho vagato per queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati. […] La natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi”.
Quando la natura sembra allegra, mansueta, un posto dove “per miracolo tace la guerra”, come direbbe Montale, si tratta solo di una piccola concessione all’uomo, che s’illude di poter trovare in essa pace e serenità, immediatamente smentita dalla catastrofe successiva. Ma la natura non si concede, non accondiscende, non si piega, perché è indifferente. L’uomo è parte di essa, come è parte di noi questo anelito alla conoscenza ultima che ci distingue dalle bestie e fa sì che disperatamente lottiamo per non piegarci fatalisticamente a questo disegno. Agiamo e lottiamo secondo libere scelte, e non riusciamo a conciliare questa dimensione con quella meccanicistica della natura. Che fare dunque? Nulla; solo odorare la ginestra e disperatamente studiare, analizzare, cercare, sperando alfine che tutto migliori.
Francesca Sordini, studentessa di filosofia, Università San Raffaele di Milano