Il mondo è in evoluzione continua. Non lo scopriamo certo oggi: da Eraclito a Darwin, questa verità è stata osservata sotto molteplici punti di vista. Mai come oggi però essa ci tocca da vicino, ci coinvolge e, a volte, ci spiazza. Il mercato del lavoro ne è un esempio, con la sua innovazione costante e frenetica. A monte ci siamo noi. Vogliamo più sicurezza, rapidità, costanza nei servizi a nostra disposizione e nello stesso tempo costi e percentuali d’errore minori. In una parola: efficienza. La tecnologia da millenni ci viene in soccorso, con macchinari in grado di fornire prestazioni che l’essere umano, da solo, non potrebbe offrire. 



Siamo però arrivati ad un punto di svolta epocale. Siamo infatti ormai in grado di sviluppare macchinari in grado non solo di affiancarsi a noi nel nostro lavoro, ma addirittura di sostituirci. Questo potrebbe rivelarsi una minaccia, un pericolo verso noi stessi, come evidenziato da uno studio Onu: “La grande novità è che nel mirino dei robot ci sono soprattutto i Paesi emergenti: quelli che fino a ieri avevano sviluppato un’industria a basso valore aggiunto contando su una manodopera a costi stracciati. Quella stessa manodopera, domani, potrebbe perdere il lavoro perché superata in economia dalle macchine” (Enrico Marro, Allarme Onu: i robot sostituiranno il 66% del lavoro umano, in Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2016). 



Il rischio di desertificazione economica e di scomparsa di svariate categorie di lavoro è concreto. Se da una parte la strada appare segnata e irreversibile, dall’altra si pone un forte problema etico riguardo al concetto di progresso. Esso, per essere pienamente tale, deve coinvolgere tutto il genere umano, apportando benefici comuni; altrimenti rischia di essere, come in questo caso, un’arma a doppio taglio, con milioni di persone improvvisamente ai margini del mondo del lavoro da un lato e un’élite al comando dall’altro. 

Come può questa evoluzione verso la quale ci stiamo dirigendo diventare un’occasione di crescita? E’ evidente che bisogna modificare la nostra concezione di lavoratore e, forse, di uomo in generale. Con l’avanzare degli anni sarà sempre più raro avere a che fare con figure professionali di tipo manuale o tecnico (di quello si occuperanno benissimo le macchine); al contrario, aumenterà la richiesta di menti brillanti, in grado individuare i nuovi problemi e bisogni della società del futuro e di soddisfarli attraverso capacità informatiche, ingegneristiche e imprenditoriali sempre più raffinate e specifiche, in un connubio elaborato tra sagacia umanistica e competenza scientifica. Insomma, l’uomo del futuro, per non soccombere, dovrà dunque essere sempre di più emblema dell’ingegno che lo contraddistingue.



Lo stesso report Onu indica alcune strategie percorribili a partire dai banchi di scuola, per rapportarsi con la rivoluzione digitale in atto: “Bisogna ridisegnare i sistemi educativi […] in modo da creare le competenze manageriali e professionali necessarie a lavorare con le nuove tecnologie” (cit.) perché “l’uomo, così come ha sempre fatto dalla Rivoluzione Industriale in avanti, non smetterà di creare nuovi tipi di lavoro, nuove industrie e nuovi modi di guadagnare” (Stefania Medetti, Il lavoro nel futuro: i robot saranno una minaccia o un’opportunità?, Panorama, 12 agosto 2014).

Lavoisier diceva che nulla cambia, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Forse quello che oggi ci manca è il coraggio di essere uomini secondo le nuove modalità che noi stessi, attraverso il nostro desiderio di progresso e cambiamento, ci chiamiamo ad essere. 

Raffaele Raminelli studente di lettere moderne nell’Università di Genova

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