Finita la seconda guerra mondiale l’Italia si trovava in una situazione molto delicata e drammatica: se da una parte era finalmente conclusa una guerra civile che aveva dilaniato il Paese per quasi due anni, dall’altra la miseria sociale ed economica dominava la penisola da Nord a Sud. C’era uno stato da ricostruire a 360 gradi. I risultati del censimento del 1951, il primo su base nazionale dopo la fine della guerra, mostravano la reale situazione italiana: una società ancora prevalentemente agraria. Il fascismo con la sua propaganda si era sforzato di presentare l’immagine di un paese moderno e dinamico, dove grazie al ruolo unificante del regime erano cadute le barriere secolari che avevano separato città e campagna, settentrione e meridione. Non era così; la campagna era in uno stato di evidente arretratezza e nelle province meridionali le condizioni erano talvolta primitive; ma anche l’Italia urbana nel suo complesso era ancora lontana dagli standard di vita e di cultura dei maggiori paesi europei. Il censimento del 1951 dava ancora altre notizie che confermavano l’arretratezza del Paese: gli analfabeti e i semianalfabeti erano più della metà della popolazione, gli studenti universitari e i laureati erano poco più dell’1 per cento.



Occorre a questo punto illustrare alcuni episodi della vita politica italiana e soprattutto europea senza i quali non si potrebbe comprendere in che modo l’Italia riuscì, in poco più di dieci anni, a trasformarsi da nazione sull’orlo del baratro in “una delle più industrializzate dell’Occidente”.



Le elezioni del 1948, le prime della Repubblica, videro la netta vittoria della Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi che si faceva così carico di portare a compimento le riforme necessarie per risanare il Paese dalle tragedie della guerra. In un clima politico particolarmente acceso il sindacato Cgil avanzò nel 1949 la proposta di un piano di sviluppo finalizzato a ridurre la disoccupazione (che aveva raggiunto il 40 per cento); esso era diviso in tre punti: nazionalizzazione dell’industria idroelettrica, numerose opere di bonifica, nuovo piano edilizio. Liquidato il piano del sindacato (“di piani ce ne sono tanti, quelli che mancano sono i quattrini”), De Gasperi diede inizio al proprio piano di sviluppo, grazie a cui esplose il “boom economico” qualche anno dopo, fondato soprattutto sugli investimenti statali in aziende private (la più aiutata sarà sicuramente l’Eni di Mattei), sull’accumulazione del capitale (grazie alla mancanza di controllo fiscale sul mondo degli affari) e sulle grandi opere infrastrutturali. Inoltre è fondamentale constatare il fatto che il “miracolo” non avrebbe potuto aver luogo senza il basso costo del lavoro che predominava in Italia, la deflazione salariale. Gli alti livelli della disoccupazione degli anni 50 permisero che la domanda di lavoro eccedesse abbondantemente l’offerta, con prevedibili conseguenze in termini di andamento dei salari.



Parallelamente alle politiche di sviluppo in Italia, l’Europa stava cercando di darsi una propria fisionomia politica ma soprattutto economica, per rimediare i disastri della guerra e per porre le basi per una pace duratura. Dopo il Patto Atlantico (1949), la fondazione della Ceca (1950), la Ced (1951), nel 1957 nacque la Cee che lavorò per il libero movimento dei beni e dei capitali, dei lavoratori e per l’abolizione dei cartelli e dei dazi doganali. L’effetto per l’Italia fu evidente: divenne uno dei maggiori paesi di esportazione a livello mondiale, in particolare nel settore degli elettrodomestici e in quello automobilistico.

A livello sociale questa espansione economica portò a degli oggettivi miglioramenti: per la prima volta nella storia gli italiani cominciarono a non preoccuparsi più di sopravvivere, ma cominciarono a “stare bene” usufruendo dei primi beni di consumo (automobile, frigorifero, la mitica Lambretta, lavatrice, eccetera).

Le conseguenze di un fenomeno così imponente furono numerose; tra le tante Piero Bevilacqua (nel primo documento in consegna) individua l’emigrazione. Nei decenni cinquanta e sessanta infatti si può affermare che la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento; milioni furono le persone che emigrarono dal Sud Italia per raggiungere il più industrializzato settentrione. Ma non solo, numerosissimi furono coloro che si spostarono fuori dal Paese in cerca di fortuna, principalmente in Germania. Oltre a modificare drasticamente il panorama urbano delle grandi città, il fenomeno migratorio è protagonista anche in chiave di sviluppo economico. Infatti il lavoro italiano all’estero contribuì allo sviluppo nazionale sia direttamente, attraverso i risparmi in una valuta più forte della lira inviati alle famiglie di origine, sia indirettamente, col rendere meno angusto il mercato del lavoro e sfoltendo i ranghi di una popolazione contadina che premeva in eccesso sulla terra disponibile.

Se da una parte il “miracolo economico” fu una conseguenza della volontà strenua degli italiani di rimettersi in piedi dopo le devastazioni della guerra, fino a diventare una potenza mondiale, dall’altra risulta a quasi un secolo di distanza un periodo particolarmente contraddittorio. Disagi e inquietudini sociali (basta pensare all’enorme successo dei sindacati), il Sud Italia che non teneva il passo del Nord e viveva una situazione di abbandono che portò alla crescita della mafia, specialmente in Sicilia, le speculazioni edilizie che accompagnarono gli anni cinquanta e sessanta; tutti fenomeni ben descritti dai grandissimi maestri del Neorealismo italiano letterario e cinematografico.

Ma le principali contraddizioni si riscontravano in ambito culturale. L’avvento della società dei consumi coincise con la formazione di una “società edonistica” – come ebbe a constatare impietosamente Pier Paolo Pasolini – che portò con sé una aculturazione e un’omologazione del pensiero che distrusse le realtà particolari che caratterizzavano l’Italia. Lo strumento usato, secondo Pasolini, per raggiungere questo scopo fu principalmente la televisione, sicuramente uno dei principali simboli dei decenni in questione.

Una lettura critica del “miracolo economico” permette di riconoscerne i meriti, ma anche di metterne in luce le contraddizioni, le cui conseguenze le possiamo riscontrare ancora oggi nella società del duemila.

Andrea Pezzini

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