Il termine progressus aveva nell’antichità romana un significato neutro: con esso si indicava il semplice succedersi degli eventi. E’ indicativo che la modernità abbia connotato il “progresso” in senso esclusivamente positivo: abbia fatto equivalere lo scorrere del tempo al miglioramento delle condizioni umane. Per illustrare le ragioni di una connotazione tanto diversa (che certamente deve molto al pensiero scientista) si può risalire ad un episodio della vita di Winston Churchill. Lo statista si recò – finita la seconda guerra mondiale – in una prestigiosa università statunitense, dove il rettore lo accolse trionfalmente recitando un discorso pieno di fiducia nel futuro che il progresso scientifico avrebbe dato all’umanità: un mondo in cui la scienza e la tecnica si sarebbero tanto impadronite dell’uomo, che egli non avrebbe più potuto commettere le tragedie che la storia aveva visto svolgersi pochi anni prima. Non ci sarebbe mai più stato un Hitler. Ascoltato il discorso, Churchill prese la parola augurandosi di essere già morto all’avvento di quel mondo. Lo statista faceva così notare (e difendeva in quanto umana) la libertà ultima di ogni azione e la possibilità di utilizzarla anche per il male. Una evidenza già nota ad Ovidio (che osserva: “Vedo ciò che è meglio e faccio il peggio”), ma che solo le tragedie del Novecento hanno potuto rendere consapevolezza comune.



E’ da questa storia che prende le mosse la riflessione di Edoardo Boncinelli, proposta nell’articolo “Per migliorarci serve una mutazione” (Corriere della Sera): egli distingue nettamente fra il progresso “materiale” e quello “morale e civile”, sostenendo che “i problemi nascono in gran parte dal confondere fra loro questi due tipi di progresso”. Certamente tale distinzione spiega (a differenza dello scientismo e dell’identità delle due nozioni di progresso) fatti di cui ognuno di noi ha esperienza: i risultati della tecnica sono evidentemente concessi a tutti indipendentemente da un lavoro personale l’umanità espressa nell’arte e nella cultura va invece conquistata non solo da ogni generazione, ma da ogni uomo singolarmente, perché non si perda.



Una riflessione sulla non coincidenza del progresso materiale con quello umano la si trova nella prefazione de I Malavoglia di Giovanni Verga, il quale nota amaramente come il progresso sia grandioso se visto “da lontano”, ma in realtà tale aspetto copra la meschinità degli interessi particolari che lo creano e della vita dei singoli. Riflessione che riecheggia nelle parole di Pirandello, per cui il progresso “non ha nulla a che fare con la felicità”.

Eppure nella storia abbiamo – contrariamente a quanto sembra affermare Boncinelli – esempi dell’influenza esercitata dal progresso materiale sui “comportamenti” e gli “atteggiamenti mentali”: basti pensare alla analitica testimonianza che Pier Paolo Pasolini dà del boom economico nel suo pieno svolgimento. Lo sviluppo ha, in quella stagione, influenzato la vita morale e civile: ha prodotto non solo un cambiamento della cultura materiale della nazione, ma – secondo Pasolini – una vera e propria mutazione antropologica (che di certo Boncinelli richiama nel titolo dell’articolo), investendo i comportamenti degli italiani e modificando il loro “vissuto”. Il cambiamento “di natura esterna, collettiva e culturale” ha scalfito quello che Boncinelli giudica “di natura interna, individuale e biologica”: questo perché i comportamenti umani non sono propriamente individuali, ma espressione di una relazione fra l’individuo e gli altri. Il fatto stesso che inizialmente Boncinelli denomini questo tipo di progresso “civile” (cioè concernente la comunità) ne è testimonianza.



Proprio in virtù della natura civile dei comportamenti umani, un ruolo molto importante è giocato in essi dalla emulazione, che Boncinelli giudica una “spinta potentissima” ed in talune situazioni persino una “costrizione”. Spinte e costrizioni di cui Pasolini dà ampia testimonianza, mostrando come nel secondo Dopoguerra abbiano persino valicato i confini delle classi sociali ed appiattito i desideri di tutti gli italiani, offrendo gli stessi modelli a tutti. In più, la maggiore facilità che i mezzi di comunicazione di massa offrono nell’imporre modelli amplifica e velocizza il processo di comunicazione.

Il sogno del rettore dell’Mit sembra realizzato: attraverso la tecnologia si può imporre un modello universale di uomo e determinare il suo volere. Eppure mai come in questo tempo è stata evidente l’insofferenza verso i modelli proposti: spesso anche in forme violente e disumane, emerge la ribellione verso un modello di vita sempre più sentito come imposto e scisso dalla propria umanità.

Ugo Valori, studente di lettere classiche nell’Università di Bari

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