Mettere un like su Facebook? Guardare un video su YouTube? Tutte azioni che al giorno d’oggi ci appaiono banali, quasi immediate, eppure prima del 2004 non avremmo potuto farlo, non esistevano ancora. Viviamo in un ambiente iperconnesso, pervaso dalla tecnologia: smartphone, social network e tablet sono ormai di uso comune; fare acquisti, prenotare vacanze, guardare film online sono azioni che diamo per scontate. Abbiamo in tasca a portata di un click dispositivi che hanno accesso al sapere mondiale. Tutto ciò avrebbe dovuto rendere il sapere democratico, alla portata di tutti, avrebbe dovuto creare maggiore apertura mentale, ma purtroppo non è sempre stato così. Nonostante abbiamo materiale per studiare o approfondire



Qualsiasi argomento, nonostante abbiamo la possibilità di relazionarci con persone di paesi e culture diverse, spesso anche su internet non usciamo dal nostro “orticello”, non ci avventuriamo in parti della rete lontane dalla nostra quotidianità. Nel diverso.

Questo perché progresso tecnologico e progresso civile non sono sinonimi, non vanno di pari passo. Come se internet fosse un supermercato con un’offerta di prodotti infinita, dove tutto è a disposizione, ma in cui l’utente medio finisce per comprare sempre le stesse cose, per paura di fronte all’offerta sterminata.



Nel supermercato di internet, i social network sono un ecosistema perfetto per lo sviluppo del virale. Un video, immagine o post diventa virale quando viene condiviso milioni di volte raggiungendo praticamente ogni bacheca Facebook, ogni profilo social. Come un virus che si diffonde e infetta chiunque si trovi sulla strada, i materiali multimediali virali portano spesso un folto pubblico a emularne i contenuti. Come ad esempio la ice bucket challenge, sfida in cui ci si filmava mentre ci si rovesciava addosso un secchio di ghiaccio per simulare la sensazione della Sla. Era  iniziato come un video che incentivava le donazioni per la causa, ma è finito per diventare la sfida dell’estate solo perché tutti volevano copiare il personaggio famoso di turno che l’aveva realizzata sulla sua pagina.



Oltre all’emulazione, spesso cieca, un’altra problematica dell’avanzare tecnologico è che, se guardiamo il progresso della società, ci sono molte situazioni civili che sono rimaste quasi immutate rispetto al secolo scorso, specie nelle comunità piccole, dove comunque la tecnologia è arrivata. Come ad esempio lo slut-shaming, l’atto di far sentire una donna colpevole per determinati comportamenti sessuali, come ad esempio per filmati pornografici diffusi in rete spesso senza il suo consenso, portando persino al suicidio per colpa delle maldicenze. Tutti si fanno trascinare nelle abitudini e nei modi della massa che è sul web, dando spesso vita a comportamenti negativi. Come anche, ad esempio, il caso di un ragazzo in Canada che ha rivelato di essere omosessuale: alla notizia i compagni di classe hanno risposto con una pagina Facebook per deriderlo e con messaggi di minacce anonime. Tutto questo lo ha portato a togliersi la vita.

Questo vuole evidentemente dire che i processi sociali sono sì condizionati dalla tecnologia, ma soprattutto dalla pubblica opinione: il pensiero e le convinzioni che si mantengono nella gente nonostante spesso non corrispondano al vero. Il cambiamento del progresso sociale purtroppo è ancora legato al ricambio generazionale umano, mentre il cambiamento del progresso tecnologico oggi è inevitabilmente più veloce.

Possiamo concludere dicendo che l’evoluzione tecnologica non ha connotazione etica. Facebook, Instagram, Twitter non sono né buoni né cattivi. Sono solo strumenti. Le conseguenze del loro utilizzo, e le responsabilità, sono soltanto nostre.

Rachele Alvarado, studentessa di marketing e comunicazione nell’Università Iulm di Milano

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