Non voglio fare ulteriori giochi di parole sul nome del povero Caproni, né sul contenuto discutibile della sua poesia. Ma per una volta la scelta ministeriale è stata davvero felice. Che l’analisi testuale abbia un senso come prova d’esame mi pare un’ipotetica dell’irrealtà, ma se la si vuol fare deve essere svolta su un testo mai visto prima e di un autore ignoto, per il quale non siano disponibili né le litanie mnemoniche dei libri di testo, né le compilations già pronte da cercare sul cellulare nascosto (quello buono, se alla commissione hai dato quello scrauso).



Anzi, la prossima volta perché non dire semplicemente “questo è un testo di un autore italiano del ‘900, adesso fai tu”?

La redazione mi segnala però un dato: pare che tra le “traccie” (sic) sia stata di gran lunga preferita quella su “Nuove tecnologie e lavoro”. Con un gradimento sorprendente, anche perché a prima vista mi era sembrata un po’ subdola, apparentemente banale ma con qualche insidia. E allora provo a svolgerla.



Come? Proviamo la versione “saggiobbreve”, questa forma letteraria partorita dal nulla da un burocrate ed inesistente fuori dal contesto esamistico. La regola è di stare nelle cinque mezze pagine: per me che scrivo relativamente stretto, dovrebbero essere 4500 caratteri. La lunghezza giusta di un articolo del sussidiario, e che sforo sempre… ok, partiamo da un titolo ad effetto.

Il pendolo dell’innovazione

Preoccupazioni come quella espressa nell’articolo di Marro del 2016 non sono nuove. Proviamo ad immaginarle ai tempi dei grandi imperi (romano, cinese, ottomano…): “Le nuove macchine sostituiranno i due terzi degli attuali lavori. Cominciando da quelli più umili e che richiedono meno competenza. Che ne sarà di tutti gli schiavi che scavano in miniera e spaccano le pietre, che zappano la terra e ne lavorano i frutti, che remano sulle navi?”.



Tra i riferimenti si sarebbe potuto citare il rapporto tra la produzione del cotone e lo schiavismo nel sud degli Usa. Un caso emblematico ben noto anche a Marx (che, pure, verso la schiavitù aveva delle opinioni che oggi ci appaiono perlomeno equivoche). Nel XVIII secolo la diffusione del cotone sembrava poter risolvere i problemi dell’abbigliamento per tutti, ma col limite del lento e tedioso lavoro di sgranatura manuale delle fibre. Per questo ci si rivolgeva ai trafficanti africani, anche se gli schiavi erano spesso sfruttati per coltivazioni più redditizie. Alla fine del secolo venne però introdotta la velocissima macchina sgranatrice, che alimentò le industrie britanniche ed il loro sfruttamento della manodopera locale, fece esplodere lo schiavismo nei futuri Stati Confederati per la coltivazione dei bianchi fiocchi, ma offrì anche ai ceti più disagiati la disponibilità di quantità di tessuti impensabili prima.

Una simile dialettica si è riproposta di continuo, quando una tecnologia ha liberato dalla fatica alcune parti della popolazione, creando però sacche di nuovi poveri che finivano sfruttati in altri settori: fra l’altro, proprio il tessile ne ha dato molti esempi. L’oscillazione forzata di questo pendolo ha tuttavia condotto ad un complessivo e duraturo sviluppo economico e civile, se è vero che oggi la popolazione terrestre è quattro o cinque volte maggiore di quella di inizio ‘900, ma rispetto ad allora il numero degli indigenti è diminuito non solo in percentuale ma anche in valore assoluto.

Sarebbe strano se la rivoluzione digitale non riproponesse schemi analoghi, che possono a breve termine portare alla perdita di molti lavori, ma credo sia condivisibile la visione più positiva dell’articolo di Meta del 2017, sul summit di Davos, anche se i partecipanti a tale incontro hanno una visione verosimilmente di parte.

Ad essere avvantaggiati saranno i paesi ed i ceti sociali in cui si investirà di più su una efficace formazione verso l’uso di nuove tecnologie. Ciò è paradossalmente più facile là dove lo sviluppo delle tecnologie precedenti è in ritardo, e il salto verso quelle completamente nuove potrebbe incontrare meno ostacoli: in questo senso proprio l’Italia, che ha perso il treno dello sviluppo in diversi settori, potrebbe avvantaggiarsene. Non so in che tempi si potrà raggiungere l’obiettivo del 31-40 per cento citato, ma non è impossibile, purché ci si liberi dai tradizionali impedimenti che da noi ritardano lo sviluppo, dall’inefficacia del sistema scolastico all’inefficienza di quello burocratico ed alla pochezza della politica.

Veniamo così all’indagine citata nell’articolo di Medetti del 2014, non senza osservare come l’evoluzione delle possibilità tecnologiche sia tale da far considerare lungo un arco di soli tre anni. Qui si mettono infatti a confronto le preoccupazioni che derivano da uno dei due aspetti in discussione, con le speranze che derivano dall’altro.

La conclusione è che, dalla prima rivoluzione industriale in poi, sul lungo termine le innovazioni hanno un saldo positivo. Il che però non significa che si possano ignorare i problemi sul breve periodo: ritornando al primo articolo, è inevitabile tra l’altro che vi siano masse sempre maggiori di diseredati che cercano fortuna fuggendo dall’Asia, dall’Africa e dal Sud America.

Si può rispondere con i muri, inefficaci quanto crudeli, oppure puntando verso l’innovazione.

Era già successo ai nostri nonni e bisnonni, in larga parte operai o contadini dalla vita difficile e che vedevano poche prospettive oltre all’emigrazione, ma che spesso han saputo approfittare del progresso tecnologico, anche se questo richiede una continua capacità di studiare e magari di ripartire da zero.

Ma di sicuro non ci dispiace che le ragazzine italiane di oggi non vedano più nel proprio futuro solo montagne di panni da lavare a mano, come era per la maggior parte delle loro antenate, anche se la macchina lavabiancheria venne all’inizio guardata con sospetto, come tutte le invenzioni della creatività umana.

Wow, ce l’ho fatta. Sono stato nelle 4500 battute, ho usato tutti i riferimenti senza fare citazioni letterali, ho aggiunto qualcosa di mio per mostrare che “la so” senza andare fuori tema (credo). Adesso ritiro lo StarTac che ho lasciato sulla cattedra, ovviamente ho usato lo smartphone buono per googolare qualche punto che mi sfuggiva 😉

Ci ho messo un’ora e mezza effettiva, che non è poco ma è comunque un quarto di quel che concediamo a loro. Spero di aver espresso il mio pensiero, è andata. Per fortuna non sarò io a correggere le prime prove, avrò da fare con quelle di Chimica e di Biotecnologie…

Ah, nei giorni scorsi ho incrociato Isabella, di cui avevo parlato qui tanti anni fa. Sta facendo gli esami, non sa ancora cosa farà dopo. Mi dice che ha scritto un articolo sui robot, l’altra traccia, bella ed impegnativa. Non mi dice cosa ci ha messo: ma chissà, magari le verrà voglia di puntare alla Scuola Sant’Anna, sarebbe un bel colpo.

Forza, noi e loro, che la terza prova ci attende.