Ultimi afosi giorni di un anno scolastico complesso e strano, durante i quali molti studenti si barcamenano tra le ultime verifiche mostrando la piena padronanza delle più sofisticate tecniche di recupero e sopravvivenza e altri, pur avendo raggiunto l’obiettivo di una “salvezza” più o meno felice, continuano a venire a scuola perché “Prof, se no che facciamo? Qui ci sono gli amici e voi prof, a casa mi annoio…”. 



Questa insistenza nel venire a scuola fino all’ultima ora di lezione fa riflettere. Quando avevo la loro età, complice la vicinanza del mare e le temperature sahariane della mia zona di residenza (questa storia del riscaldamento globale io non l’ho mai capita), “piazzata” l’ultima sufficienza o qualcosa di più se riusciva, si salutavano con deferenza e decisione i prof e si scappava via con gli amici un bel po’ di tempo prima: iniziavano le vacanze e ognuno aveva ben chiara la differenza tra il tempo feriale e quello festivo tanto desiderato. 



Oggi non è più così, almeno sembra. I ragazzi rimangono a scuola fin che possono; è un altro segnale della loro paura di vivere e del grande bisogno che hanno di una relazione significativa — anche con il mondo adulto — che per molti fuori della scuola scarseggia o manca del tutto. 

Comunque, nelle aule semivuote, in questi giorni strani, si parla di tutto e con molta libertà. Tra i diversi argomenti emerge anche “Blue whale”, misterioso e terribile “gioco” di morte che sembra diffondersi anche in Italia ma che, per altri, sarebbe solo l’ennesima bufala mediatica. 



Io non so molto sulla genesi e sul funzionamento di “Blue whale”, se non quello che leggo sui giornali e sento in tv o dai miei studenti; non mi considero quindi un esperto. 

L’impressione che ho nel dialogo con i ragazzi è che non subiscano tanto il fascino attrattivo di questo cammino autodistruttivo, quanto piuttosto abbiano paura del suo ipnotico potere e di esserne risucchiati loro malgrado. Questo perché i giovani, anche quando ostentano spavaldamente la loro sicurezza, sono abbastanza consapevoli della loro fragilità, intesa come il non essere ancora pronti alla vita, e la temono massimamente. Oggi più di un tempo, perché gli adolescenti (ma ancor più i preadolescenti) non trovano molto aiuto negli adulti (genitori e insegnanti che siano), più preoccupati quest’ultimi o di “aggiustare” e controllare la vita dei figli (o studenti) evitando loro ogni problema, spesso gestendo in modo ambiguo il rapporto emotivo con loro e fornendo vie di evasione; o di anticiparne troppo precocemente l’impatto con la realtà caricandoli di attese eccessive e trattandoli con esagerata severità. 

Di fronte a questi maldestri tentativi educativi — in cui incorriamo un po’ tutti noi adulti, chi più chi meno – sempre più di frequente i giovani erigono barriere difensive efficaci ed impenetrabili, grazie anche alla loro indiscussa superiorità nell’uso quotidiano della tecnologia della comunicazione digitale. Questo anche perché, dispiace ammetterlo, gli adulti ondivaghi che si comportano nel modo descritto sono per i ragazzi un ulteriore ostacolo, il più grande, probabilmente, perché più coinvolgente sul piano affettivo e così, per non creare problemi, una delle strade scelte dai giovani è semplicemente togliersi di torno.

“Blue whale” è l’ennesimo drammatico campanello d’allarme per il mondo adulto ma anche un’occasione di riconsiderare ancora una volta la condizione e il bisogno di molti giovani, chiusi in un isolamento che sembra inaccessibile quanto frequentemente ricercato, tentati dalla facile soluzione dell’autolesionismo, purtroppo sempre più estesa (i dati di una inchiesta della Società Italiana di Pediatria sul disagio emotivo dei giovani dai 14 ai 18 anni, resi noti proprio in questi giorni, sono veramente impressionanti). 

È quasi normale che anche il mondo adulto sia attanagliato da un senso di impotenza e terrore. Anche nella scuola, sempre più unico luogo educativo, che piaccia o no, per tanti — troppi — giovani, ci si chiede che fare e si tentano risposte. 

Una prima reazione, sia per i docenti che per i ragazzi, può essere sicuramente quella di analizzare il fenomeno, di conoscerlo nei suoi tratti essenziali per sapere meglio cosa si ha di fronte. E allora ben vengano anche i dibattiti, i corsi e le conferenze, l’ausilio degli esperti.

Ma fintanto che la scuola abdicherà al suo scopo originario e primario che è quello di insegnare, ogni risposta di tipo reattivo, cioè dettata nei suoi termini dal fenomeno che si rincorre sul momento (oggi “Blue whale” domani un altro peggiore…) e tutta preoccupata di ridurre la questione a come eliminare le cause psicologiche e sociali del problema, sarà alla lunga inefficace e perdente. 

A scuola si educa insegnando, cioè introducendo le giovani generazioni alla realtà attraverso la trasmissione (tradizione) disciplinare della conoscenza, della bellezza, della forza religiosa e morale che chi ci ha preceduti ha consegnato a noi come un patrimonio prezioso, da imparare, custodire e verificare. La scuola aiuta le famiglie a far crescere degli uomini e delle donne capaci di imparare e di sostenere la fatica dell’impegno con la realtà nella sua totalità. 

L’insegnamento che intendo non è solo di tipo cognitivo, cioè indirizzato ad un aumento quantitativo delle conoscenze, ma deve essere capace di rendere possibile al giovane, attraverso lo studio delle discipline scolastiche, l’acquisizione di competenze di ordine metacognitivo riferite alla sua capacità di rapporto sano con la realtà: l’estroversione, l’amicalità, la stabilità emotiva, etc. (le cosiddette non cognitive skills studiate in ambito non pedagogico da Heckman) a cui andrebbero sicuramente aggiunte la competenza a saper “criticare” la realtà e le cose, di metterle in dubbio in un certo senso e quindi la competenza a domandare (per questo si veda l’intervento di Costantino Esposito alla Convention di Diesse 2016).

L’ideale educativo di chi fa scuola, come di un genitore, dovrebbe essere quello di un soggetto in grado di affrontare con certezza la sfida della realtà — quindi anche di fenomeni come “Blue whale” — perché dotato di conoscenze, forza emotiva e capacità di uso critico della ragione adeguate; ma anche capace di ricercare e tessere relazioni vere e significative che lo sostengano. 

Per questo occorrono insegnanti che non siano tanto delle noiose e saccenti enciclopedie (i ragazzi non sanno che farsene degli eruditi, perché hanno Wikipedia che è più veloce nel dar risposte…) o degli intrattenitori sociali alternativi al fare scuola che organizzano cose ricreative (teatro, musica, etc.) a margine dello studio noioso, ma sappiano testimoniare questo tipo di rapporto con la realtà attraverso la passione per la disciplina che insegnano e per quel brano di realtà cui essa introduce il giovane. 

I ragazzi ne hanno bisogno. Perciò vengono a scuola, stranamente, fino all’ultimo giorno.