L’articolo scritto recentemente dal professor Alberto Berretti per Agenda Digitale (e poi ripreso da Roars), intitolato “Se gli algoritmi a scuola uccidono il pensiero analitico” offre l’opportunità di alcune considerazioni sulla didattica della matematica. A. Berretti si stupisce dei risultati negativi dei compiti degli ultimi appelli di Analisi matematica 1 ad Ingegneria, secondo lui andati peggio del solito. A suo avviso il compito era abbastanza facile perché costituito da esercizi quasi identici a quelli fatti in aula. In questa situazione, come ex insegnante di Analisi matematica, mi riconosco nel giudizio dato dall’autore. Anche i miei studenti erano bravi nei procedimenti deduttivi piuttosto meccanici (dove c’è un’operazione standard e cresce solo la complicazione del calcolo), invece entravano in crisi quando occorreva riconoscere un tipo, per esempio per una equazione differenziale o un integrale, dove occorre prima classificare per individuare la procedura idonea.
Già nella scuola primaria e nella media gli studenti fanno fatica a fare i problemi con le operazioni inverse. Pensiamo alle frazioni, tutti imparano a calcolare la frazione di un numero, ma guai a chiedere qualcosa di diverso. Berretti chiarisce di non essere uno studioso di didattica, di non avere mai avuto un approccio formale alla questione delle metodologie di insegnamento, ma di essersi sempre basato su un approccio istintivo: “guardo in faccia i centocinquanta-duecento studenti a cui faccio lezione, e cerco di capire cosa stanno pensando mentre faccio lezione”. Anche io guardavo in faccia i miei studenti e li vedevo spesso intenti a consultarsi tra loro su quanto stavano ascoltando. Io facevo lezione solo se in aula c’era un silenzio assoluto. Ai miei richiami gli studenti obiettavano che stavano “solo” parlando delle cose che io avevo detto, seguivano una loro urgenza senza riconoscere una necessità elementare: o parla l’insegnante o parlano gli allievi, parlare tutti insieme non serve a niente.
In realtà mettevano messo il dito sulla piaga: la lezione frontale è proprio adeguata all’esigenza del comprendere? C’era da mediare: il numero elevato di alunni, l’eccessiva difficoltà dei testi, che parlano come se gli studenti fossero matematici già esperti e non matricole sperdute dentro un mondo nuovo in cui non si sentono guidati, accompagnati, la diversità delle scuole di provenienza, lo sconvolgimento della concezione di matematica rispetto a quella a cui erano abituati: invece che poca teoria e tanti esercizi, qui trovavano tanta teoria e pochi esercizi. E poi questi benedetti studenti non venivano mai a chiederti ciò che non capivano, non si accorgevano di non capire.
Non ci interessa l’approccio formale di altri alla didattica; è urgente che l’insegnante si ponga di fronte alla sua didattica, alla sua classe, nell’ottica con cui si fa ricerca, facendo ipotesi e verificandole.
Io di fronte agli studenti avevo preso una strada diversa da quella del Berretti: osservavo per capire e cercavo una via per destabilizzare le loro abitudini. E mi aiutò il Politecnico, ciascun corso di Analisi matematica poteva disporre di un paio di studenti “anziani” che aiutassero le matricole in alcune ore di esercitazioni assistite. E qui cominciò la scommessa. Istruire gli studenti/istruttori che spesso avevano solo idee vaghe dell’Analisi matematica, dare testi interessanti, ma non tanto difficili da scoraggiare, capaci di far emergere difficoltà e domande, girare per la grande aula da disegno in cui le matricole lavoravano a gruppi, fermandosi a discutere con tutti. Ecco che il virus si insinua, la domanda non è più generica (prof, non ho capito) ma tende a diventare specifica (prof, ho provato a fare così ma è un gran pasticcio).
Mi sono inoltrata in una ricerca che non è ancora finita anche se sono in pensione. Alcuni amici insegnanti mi chiedevano giudizi, consigli e abbiamo cominciato a rivedere le abitudini scolastiche chiedendoci: come stai inducendo nei tuoi allievi una giusta idea dello studio? Quale idea di matematica è dietro le tue lezioni, le tue scelte didattiche, la tua valutazione?
Una sorpresa: queste domande ci riguardavano tutti, dalla scuola primaria all’università. Anzi ci accorgemmo insieme che una giusta posizione di fronte alla matematica, se la si impara nella primaria non la si perde più.
Come giudica la situazione il nostro docente deluso? “Tra gli studenti negli ultimi anni prevale il pensiero meccanico. Ma la mente umana è diversa dai computer. E nella vita serve soprattutto il pensiero analitico”. Qualcosa vorrei aggiungere. Concordo che la mente umana è diversa da un computer, e concordo anche sulla pericolosa prevalenza del pensiero meccanico. Ma mi chiedo, anzi vi chiedo, amici insegnanti e genitori: questo meccanicismo gli studenti l’hanno imparato da soli o è il frutto di una poco saggia educazione? E poi è così vero che nella vita serve soprattutto il pensiero analitico?
Ogni oggetto di conoscenza richiede un suo particolare metodo, i metodi vanno bene se sono applicati all’oggetto per cui sono adeguati, altrimenti vanno decisamente male. La matematica, ad esempio, non tollera di essere appresa con un unico metodo. Tutti sappiamo che il metodo matematico per eccellenza è quello euclideo, basato su ipotesi e dimostrazione. Ma un bambino per capire e imparare la matematica ha bisogno di esperienze, di realtà, di giochi, di rappresentazioni. Tanto che un grande amico della scuola, Gérard Vergnaud, parla di “conoscenza in atto” e “teorema in atto” quando conoscenza e teorema sono attualizzati, incontrabili dentro un’esperienza. E forse questa dinamica non è legata all’età, ma è all’inizio di ogni sapere. Come presentare un’equazione differenziale “in atto”, come elemento organizzatore di un campo di esperienze? Come inserire la didattica laboratoriale nella normalità della scuola? Come attuare una didattica effettivamente assistita nella normalità del lavoro scolastico?
Educare non è un bel discorso, ma una compagnia che guida lo sguardo, che comunica ragioni e metodi, anche in matematica.