Da bambino mi chiedevo sempre perché, nelle gare di atletica, rallentassero tanto proprio negli ultimi metri. Forse la stanchezza, forse l’inerzia, forse che è già fatta, che l’atleta non ha più nulla da chiedere alla gara. Sono cose che non si capiscono se non correndo. Non ho mai capito, invece, neanche insegnando, perché negli ultimi giorni di scuola tutti rallentino. Non con la frenesia, ovviamente, e nemmeno con la burocrazia, né con le interrogazioni (quelle più importanti, com’è noto, avvengono fra il 5 e l’8 di giugno). È un rallentamento, però, d’intensità, uno sfilacciamento, gli schemi che saltano. Come se alla fine insegnanti e studenti non avessero più nulla da chiedere alla loro gara, e si aspettasse solo la chiusura del sipario. Con la testa già al mare o agli scrutini o alle carte da compilare o al voticino in più. E magari con i bilanci finali, annegati dalla stanchezza, dall’inerzia, dal lamento, dalla strafottenza. Ma cosa rimane, alla fine dell’anno? Cosa abbiamo da offrire, l’ultimo giorno di scuola? Qualcosa in più della lettura del programma, di una baraonda tollerata, del galleggiamento tra i falsi arrivederci?



Entro l’ultimo giorno, e canto con Max Gazzè: “Io spero che esista anche un dio delle piccole cose, che sappia i silenzi mai diventati parole”, che salvi “le briciole perse di ogni esistenza, i respiri sui vetri di treni in partenza”. Spero si salvi qualcosa, dell’intensità di un anno, degli sguardi stupiti, delle lacrime trattenute, dei dialoghi infiammati, prego che l’estate non asfalti tutto. Scrivo alla lavagna che “la storia non si cancella”, non foss’altro che per vedere quanto poco basterà a cancellare quella scritta. Me li guardo in faccia: a parte i familiari, i miei alunni sono le persone con cui ho trascorso più tempo, forse le persone che mi hanno conosciuto di più. Cosa sarà di loro? Me l’ha insegnato don Giussani: cosa sarà di te? “Chissà che cosa l’aspetta nella vita, chissà cosa incontrerà…”: quel “senso di timore e tremore per il mistero che è dentro quella creatura lì, che è così tua e che non è tua”, perché è chiamata a “un traguardo, a un fine che non sei tu”. 



Ti passa davanti un anno intero, e sei sommerso dalla tua imperfezione. Allora rubi ai Promessi sposi le parole con cui padre Felice si rivolge nel lazzaretto a quei pochi guariti, salutandoli per l’ultima volta: “‘Per me’ disse ‘e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se la pigrizia, se l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva; se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandolo, perdonateci!'”. 



Straripa il bisogno di chiedere perdono, perché chi fa sbaglia, ma tu, mio alunno di quest’anno, meritavi infinitamente di più. E al tempo stesso dilaga la certezza che ora che siamo arrivati proprio in fondo a tutte le parole, a tutta la strada, ci manchi ancora il fondo. Mentre li guardo l’ultimo giorno, lo so benissimo, io che non mi sono ancora abituato all’eterna pena di cambiare ogni anno e dover l’anno dopo risollevare il masso come Sisifo. Lo so, alcuni non li rivedrò mai più, e qualcuno ne sarà anche contento; altri si porteranno per tutta la vita qualcosa che ho provato a dare, e non lo saprò mai; altri ancora diventeranno miei amici per sempre, chi lo sa? Cosa sarà di loro? È come se nella fine ci fosse un inizio. Perché, come dice una famosa poesia turca, “il più bello dei nostri mari / è quello che non navigammo. / Il più bello dei nostri figli / non è ancora cresciuto. / I più belli dei nostri giorni / non li abbiamo ancora vissuti. / E quello / che vorrei dirti di più bello / non te l’ho ancora detto”. Ci vorrà una vita per dirlo, non basteranno più le parole. 

No, non c’è spazio per altro, in questi ultimi giorni, se non per un crescendo di intensità, per uno sprint finale, quasi un’accelerazione di commozione. Guardiamoci in faccia, colleghi: questi giorni finali ci trovano più grati o più stanchi? più vogliosi di chiudere o di dare la vita per i nostri ragazzi? Non vediamo l’ora di andare in pensione e scappare da questa scuola che è tutta sbagliata oppure domina la commozione per quelle persone — persone! — che ci sono state date per un anno, e forse per mai più o forse per sempre? Non c’è spazio per altro. No, la grettezza dei bilanci, quella mai. Le carte a posto, ma non al centro dei pensieri. La voglia di staccare, Dio me ne scampi! Per il sacrosanto relax, avremo qualche secolo, a tempo debito. Piuttosto, proprio adesso, urla la voglia di ricominciare, di tuffare la vita — ora che i ruoli si smorzano, e non saremo più niente, cioè saremo, se ce lo fossimo dimenticati, soltanto persone — in quella degli alunni che dovessero cercarti. L’estate è la controprova più attendibile della verità dell’inverno. Credevo fosse una frase buona per il primo giorno di scuola, e la ritrovo perfetta per l’ultimo: “è bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”.