Porte Aperte, chiuse (semichiuse?). Corsi di laurea con numeri aperti, chiusi, semichiusi… Career Day, Open Day, High Flyers Day, Recruiting Day. L’elenco potrebbe continuare a lungo, e negli ultimi anni si sta allungando sempre di più: iniziative organizzate dalle scuole e dalle università per farsi conoscere, giornate di incontro con le aziende per stabilire contatti con il “mondo del lavoro”. Già l’espressione è significativa, come a voler dire che si tratta di qualcosa a sé: il mondo del lavoro, il mondo della scuola, dell’università, il mondo delle industrie, il mondo della rete. Poi, da qualche parte, forse!, il mondo della vita.



In quei termini iniziali si nascondono realtà e dibattiti importanti: ne è un esempio il problema del numero chiuso per le iscrizioni ai corsi di laurea umanistici, ottimamente esposto in un articolo di poco tempo fa, in cui veniva chiarito come quel che spesso si dice è una “osservazione ragionevole, ma che dà per ovvia una sequenza di presupposti che vanno discussi”. Negli ultimi giorni, complici le circostanze — la fine della scuola, il rinnovo dell’inserimento nelle graduatorie di terza fascia per gli aspiranti insegnanti, gli esami di maturità e universitari — mi è capitato di ascoltare o scambiare qualche parola con persone che, in modo diverso, sono coinvolte in questi àmbiti. Ciò che ho sentito, e talvolta ciò che spontaneamente ho risposto, mi ha dato l’occasione di vedere con un po’ più di chiarezza alcuni di quei presupposti che vengono dati per ovvi, e che invece meritano di essere guardati. 



Così, tra un corridoio dell’università e le scale del palazzo, intercetto commenti e domande in varie guise, normalmente riconducibili (comprensibilmente) ad un comune sentimento: lo sconforto. La burocrazia deleteria, la mancanza di un progetto politico, la domanda contorta di 17 pagine per inserirsi in graduatoria (e con ogni probabilità non essere mai convocati da nessuna scuola), la stanchezza per tante aspettative disilluse. Le parole virtuali, che si leggono sui giornali o in tanti gruppi social e community (di insegnanti, ricercatori, dottorandi), non sono molto più incoraggianti: “tutto assurdo”, “l’estero è l’unica possibilità”. Nelle sezioni dei giornali dedicate alla scuola circolano titoli come “Manuale di istruzioni per il XXI secolo”: come se la vita, la scelta dell’università, il lavoro da immaginare per il proprio futuro fossero elettrodomestici da programmare, con la (alquanto stravagante) idea di un mondo che resta sempre lo stesso, come una lavatrice. Lo capisco bene, lo sento sulla mia pelle il timore, la fatica e l’instabilità che caratterizza tanta parte dei Millennials.



Ma in quegli stessi corridoi e scale di condominio ogni tanto accade qualcosa di diverso. L’altro giorno ho ricevuto una domanda da una signora di una certa età, che conosce poco o nulla del “mondo dell’istruzione”: “Ma tu, con questi orari strani che fai e con tutto l’impegno e le energie che impieghi, non ti sei mai pentita di aver intrapreso questa strada (l’università, lo studio della filosofia, la ricerca, nda)?”; in un istante ho avuto davanti agli occhi tante cose, ed un’unica risposta: “No”. Su questa risposta mi sono dovuta interrogare, chiedendomi perché, nonostante tutte le storture che vedo, ne fossi certa. Il giorno successivo ho incontrato un’amica che da due anni insegna in una scuola paritaria, la quale mi raccontava: “Mi piace tanto, ma che fatica! E poi per pochi soldi… Adoro i miei studenti, però è difficile, la scuola ti toglie tanto, non resta tempo per nulla”. Ripensando alla domanda del giorno prima le chiedo: “Ma alla fine, considerato tutto, sei felice? — Sì”. Questi due piccoli episodi hanno avuto per me una grande portata: l’evidente percezione che la risposta a tante cose della vita, l’ultima parola, è sempre e solo una (che può essere perfino incredibilmente semplice quanto un e no, come nei due esempi qui).

Ho l’impressione che il gap sia (forse più che in altri tempi) molto sottile, il malinteso accessibile: “Ho studiato tanto, però adesso guadagno meno di chi non ha mai fatto l’università…”, “Vorrei studiare letteratura, ma con le poesie non si mangia”. Mi sembra cioè che la partita si giochi qui, in quello che si decide che sia prima e dopo la virgola, nella scelta di quel precede e segue il fatidico “però”. Facilmente si può sostenere che questo sia idealismo, ingenuità, vana speranza, o — in qualche generoso caso — un bell’ottimismo. Il giudizio implicito è sempre lo stesso: non capisci, la dura realtà è un’altra. Tra gli stessi insegnanti, sono tanti coloro che mettono in allerta gli studenti, sin dagli anni della scuola: “non fatevi strane idee, le possibilità sono poche e difficili…”. Tutto ciò sembra onesto, potremmo dire. Nessuna falsa speranza. Ma, ascoltato per anni, è anche profondamente noioso. Siamo sicuri che gli studenti abbiano bisogno di questo? siamo sicuri che quest’opera di disillusione preventiva, in cui in fondo si dice che ciò che si desidera è “bello e impossibile”, renda più abili nelle scelte, più creativi, più forti e audaci? E se così non fosse? Se si trattasse di una ragionevole ipotesi, addirittura una decisione consapevole, quella di scommettere che ci sia qualcosa di buono, di positivo pur dentro le tante cose che non vanno, che sono affannose e tristi? se cominciassimo a dirci (e quindi a pensare) che sia bello e possibile?

Negli ultimi tre anni ho avuto la grande opportunità di seguire più da vicino la vita dell’università (del mio corso di laurea), di incontrare e conoscere molti studenti. Tra le tante iniziative — tante! — che ricordo come significative, c’è il cosiddetto “orientamento” per i futuri iscritti, che normalmente vengono fatti confluire all’università, in giornate a loro dedicate, per chiedere e ricevere informazioni, delucidazioni, dépliant sui corsi di studio di interesse. Ogni volta ci accorgiamo che quel che fa la differenza è qualcosa di molto diverso, di molto più umano. Così un mese fa, durante uno di questi Open Day, ho assistito ad una scena bellissima: in mezzo a mille studenti raggruppati nell’atrio dell’università, un ragazzo si inchioda e, guardando dentro un’aula aperta con soddisfazione e curiosità, dice ad un amico vicino: “Oh, ma ci pensi che tra qualche mese su ‘sti banchi ci staremo noi?” Mi pare sempre sorprendente vedere come, dietro le richieste di informazioni tecniche, vi sia uno sguardo di attesa — consapevole o no — di qualcos’altro: di conoscere l’esperienza di chi sta già vivendo l’università, di una rassicurazione, magari. Di sapere che sarà bello. “Ogni volta che si chiede, non fosse nient’altro che pane, lo si fa in nome della speranza, aspettandosi che con il pane arrivi qualche altra cosa: allegria, giustizia, felicità”, scriveva la filosofa spagnola María Zambrano.

Forse, riflettendoci, i presupposti che celano le ambiguità possono essere ridotti ad uno. La domanda sulla scuola, sull’università, che nei prossimi mesi riguarderà tantissimi, potrebbe non essere più solo quella di quale corso di laurea scegliere, ma se val la pena iscriversi all’università. E forse chiedersi se val la pena studiare all’università, studiare a scuola, equivale a chiedersi se val la pena intraprendere un’avventura che va oltre la giornata. Prendere il rischio di sbagliare, di non capire tutto immediatamente, di sentirsi a volte sospesi, è come chiedersi se val la pena vivere. Studiare, o studiare all’università, può significare anche questo: che c’è un luogo in cui, direttamente o indirettamente, ci si ritrova ogni giorno alle prese con questa domanda. “Val la pena che il sole si levi dal mare e la lunga giornata cominci?”, come chiedeva Pavese.