Nel romanzo di Collodi Pinocchio non entra mai in una classe, attratto o dal teatrino di Mangiafuoco o dal paese dei balocchi; Donnarumma in una classe ci è entrato, ma all’ultimo minuto ha declinato — attirandosi gli strali del dirigente scolastico e l’etichetta di Pinocchio dalla stampa — il “rito di passaggio” che circa 500mila studenti hanno affrontato a conclusione del loro percorso scolastico.
A cavallo fra gli Europei under 21 e il ritiro estivo del Milan, né il rito “sono-maturo” né il diploma “crea-futuro” hanno convinto il diciottenne portiere del Milan a rinunciare ad Ibiza. Cosa ha convinto, invece, i 500mila? La necessità formale del titolo, certamente, sia per il proseguo degli studi che per l’accesso del mondo del lavoro; ma dal momento che nessun iniziato sceglie il rito di passaggio che lo legittimerà ad accedere al nuovo mondo che ambisce, non è agli studenti dell’esame di Stato che la domanda sulla legittimità del rito può essere posta.
Le tre prove scritte e il colloquio, quest’ultimo in particolare, perché marcatamente individuale, certamente rivelano la stoffa del candidato, grezza, rozza, fine, raffinata, mediocre, o eccellente che sia; il candidato è alla ricerca di un “giudizio di valore”, un aspetto fondamentale di ogni rito di passaggio. “Sono pronto per passare allo stadio successivo di questa società?”, è la domanda che il candidato pone col semplice atto di presentarsi e che, mi auguro, Donnarumma ha trovato modo di porre sul campo di pallone.
E’ per questa ragione che i candidati, i “ragazzi”, arrivano puntuali, anzi, in anticipo, seri, tesi, con la loro presentazione pronta e la firma da mettere sul foglio, e si spostano con la loro sedia inevitabilmente rossa da un punto all’altro della scena, dove, altrettanto straordinariamente, possono trovare un commissario disposto a condividere con loro una riflessione: “Leopardi non può essere solo pessimismo, con quelle liriche così belle” o “Ti è piaciuto imparare lo spagnolo visitando Barcellona?”. Queste osservazioni immettono linfa vitale nel corpo fatiscente dell’esame, e aiutano a mantenere perennemente in vita il “rito di passaggio”.
E’ certamente vero che, senza servizio militare, con riti iniziatici legati a nascita e crescita personale sempre più mercificati e sempre meno “sacri”, pur in senso laico, con l’allontanarsi o lo sparire dei riti del fidanzamento e del matrimonio, gli esami di fine ciclo alla scuola media, e alla scuola secondaria, e poi (eventualmente) la laurea, sono gli unici riti di passaggio rimasti. E ogni rito, per essere valido, ha le sue forme, ma cosa accade al rito se si gioca ormai su un campo dove le regole rispettate non sono quelle dichiarate?
Che l’esame di Stato comporti una buona dose di cheating, dalle prove scritte diffuse in rete quando i candidati le hanno ancora calde calde di fotocopiatura in mano al più tradizionale “suggerimento” condiviso fra iniziati nel corso della prova stessa, è cosa risaputa, e spesso ritenuta naturale. Che ci siano varie forme di teacher cheating non dovrebbe stupire, visto che il fenomeno appare anche in occasione delle prove Invalsi. Che le commissioni cerchino, per ragioni di bieca opportunità (evitare ricorsi) o di stima convinta (il rispetto del lavoro dei colleghi, e il pensiero dei propri studenti altrove impegnati nella stessa prova, in taluni casi), di allinearsi nelle valutazioni a quelle espresse dal consiglio di classe, è una pratica diffusa, suggerita dal punteggio stesso dell’esame, espresso in centesimi e con un 60/100 a porre la sufficienza come il 6/10 della scala decimale. Che la correzione e valutazione collegiale sia attuata in forme molto fantasiose, o che il ruolo del presidente sia fondamentale per la conduzione delle prove e dei lavori della commissione, soprattutto in presenza di situazioni di “disequilibrio” o “disarmonia” fra i membri della commissione, sono aspetti essenziali dell’attuale esame di stato.
Queste regole del gioco convivono con il bisogno di un giudizio di valore da parte del candidato, vale a dire di qualcosa che lo introduca in modo cosciente ad uno stadio adulto (l’accesso ad una formazione di livello superiore o al lavoro); ma può essere accettabile che un esame di Stato che coinvolge circa mezzo milione di studenti ogni anno si poggi, per essere efficace, solo sul loro bisogno, senza interrogarsi seriamente sulle proprie forme di passaggio, proprio funzionamento e sulla propria struttura?
La recente revisione dell’esame di Stato che andrà in vigore nell’estate 2019, con la scomparsa della terza prova e l’abolizione dell’argomento di inizio colloquio, non appare certo come il risultato di una seria riflessione antropologica relativa al significato dell’esame. Ma d’altronde il legislatore si è espresso chiaramente in tal senso quando ha abolito la dicitura “Maturità” e la voce “maturo/a”, trasformando il tutto in un esame di Stato di esito “positivo”.