Ho ancora qui nel computer le domande che il giornale mi aveva rivolto per il mio ultimo articolo: chi sono questi giovani che affrontano l’esame di terza media? Di cosa hanno paura? In cosa credono? Cosa sperano? E il mio articolo, dicevo nelle ultime righe, forse non dava risposte e anzi apriva altre domande. Ci chiediamo chi sono questi giovani, spendiamo pagine di analisi e valutazioni, ma, viene da pensare, non sarà il caso di interrogarsi anche su chi sono e come sono gli adulti implicati nel processo educativo? E in particolare, chi sono e come vivono la scuola i loro genitori? Non perché si voglia deresponsabilizzare i giovani alunni — in fondo quelli delle medie hanno già la capacità di scegliere e decidere — ma perché effettivamente il modo in cui le mamme e i papà vivono l’esperienza scolastica dei loro figli incide parecchio sui ragazzi.
Prendi per esempio la mamma che, di fronte ad alcune incertezze del figlio, comincia a girare studi medici, enti e istituzioni finché uno straccio di documentazione gliela danno: non si nega più a nessuno un certificato in cui, anche in totale assenza di dati oggettivi, si parla genericamente di difficoltà di apprendimento e si suggerisce di applicare le procedure per i Bes! Comincia così la trafila degli incontri, delle stesure di Piani Didattici Personalizzati (Pdp) che prevedono mappe, aiuti, tecnologia, strumenti compensativi e dispensativi. Risultato? In verità non c’è niente di meno personalizzato che questi piani didattici: ormai sono uno la fotocopia dell’altro, con la conseguenza che il giovane studente è la fotocopia di tutti gli altri studenti. Insomma, l’ansia e il desiderio di aiuto e protezione che hanno mosso la madre si trasformano spesso in un percorso didattico in cui tutto è pianificato, il risultato deve essere garantito, niente o quasi viene più chiesto di personale e di impegnativo allo studente. Nei casi peggiori, si arriva anche a tempestare l’insegnante di rimproveri e rimostranze perché all’alunno, durante una discussione in classe, è stata chiesta la sua opinione, il suo giudizio. E, si sa, le interrogazioni devono essere tutte programmate come prevede il Pdp!
La scuola viene ridotta a un protocollo, l’alunno ridotto a zero nella sua iniziativa, nella sua libertà, anche nel suo sacrosanto diritto di sbagliare. E di imparare sbagliando. Che testa potrà avere, che cuore potrà avere un ragazzo che si trova ingabbiato dentro un meccanismo che magari nasce da giuste preoccupazioni, ma che poi diventa una sorta di impedimento continuo a vivere la sua vita? Ecco, ci sono genitori così, che in fondo hanno il desiderio buono della felicità del loro figlio, ma scelgono una strada totalmente inadeguata. Del resto troviamo anche genitori che si comportano nel modo opposto. Metti la mamma che dopo il tema in cui il figlio ha preso sette chiede un colloquio perché è preoccupata dell’andamento scolastico del suo Paolino: lui può dare di più, certamente non può essere sette il suo voto. Cosa dobbiamo fare perché raggiunga voti migliori? Intanto come si fa a capire che un figlio può dare di più? Certo anche molti insegnanti raccontano la stessa solfa ai genitori: ah, vede, suo figlio non si applica, altrimenti potrebbe raggiungere voti altissimi!
In realtà queste osservazioni non hanno fondamento: posso dire che posso prendere dieci solo se dieci l’ho già preso, o no? Poi si faranno altri ragionamenti. Ma, cara mamma, vuoi dire intanto a tuo figlio che è stato bravo a prendere sette? Vuoi smettere di torturare lui e i professori per chissà quale ambizione? Da un lato, quindi, la paura che non ce la faccia, dall’altro l’incapacità di guardare con realismo ai risultati del figlio: ma gli adulti non sono quelli saggi che dovrebbero guardarsi in giro, non tremare a ogni vento che soffia, capire quello che conta davvero? Naturalmente c’è anche chi arriva al colloquio e chiede, con il figlio in terza media, se ha sbagliato classe, se è quella lì la terza di suo figlio, che non si ricorda la sezione.
Insomma c’è anche chi non ha paure e preoccupazioni e nemmeno richieste esagerate o inadeguate continuamente rivolte al figlio. E’ giusto così? Non credo, un figlio cresce se è guardato. Mio papà, certo erano gli anni sessanta, ha visto solo alla consegna della pagella di terza media la mia professoressa di matematica. Erano altri tempi, naturalmente. Ma io ero un ragazzo di quattordici anni e lui un papà di quaranta. Lui si fidava di me. E sapeva che, per un ragazzo la vita era una cosa da vivere, che se avevo bisogno chiedevo, perché la testa di un giovane è giovane finché desidera e si fida degli altri. Non è questa la risorsa dei ragazzi? Il loro pensiero desiderante, non il cinismo che non ha più aspettative che si cela dentro le richieste di protezione continue e immotivate di certi genitori, o nella esasperata ricerca del risultato di altri. Erano altri tempi, certo, ma mio padre sapeva il rischio a cui andavo incontro, come chiunque cresca. E si fidava di me e mi guardava crescere. E io guardavo lui. Non sapeva niente della mia scuola, mia mamma gli raccontava dei voti e del mio comportamento. Ma io intanto guardavo lui nel suo lavoro, in quello che faceva.
Non sarà che forse bisogna smettere di educare? Chissà che scandalo in certi ambienti e per certi psicotuttologi una frase così! Allora sciogliamo il paradosso: non sarà che aveva ragione Sant’Ignazio di Antiochia? “Si educa con ciò che si dice; di più, si educa con ciò che si fa; ancor più si educa con ciò che si è“. Forse è qui che bisogna tornare. Anzi, da qui non ci siamo mai mossi: il genitore chioccia, il genitore dirigente, il genitore spazzaneve, il genitore elicottero — gli americani sono bravi a sparare sciocchezze, ma qualche volta ci prendono — educano tutti. A modo loro, con quello che dicono, fanno e sono. Esiste il genitore giusto? No. C’è da inventarlo ogni giorno. Ma intanto se tu vieni a ritirare la pagella con tuo figlio e ti suona il cellulare e fai segno con il dito un minuto! al professore e torni dopo tre tutto sorridente, sappi che hai già insegnato un sacco di cose al tuo bambino. Nessuna intelligente. Con quello che dici, che fai e che sei.