Se per la maggior parte degli studenti giugno e luglio sono tutti mare e dormite, per gli insegnanti sonon ancora tempo di riunioni, esami e, perché no, bilanci. Si discute su quella data gita da riproporre, su quell’argomento da ripensare, su quelle situazioni complicate che ci si porta dietro sperando che l’estate porti un vento nuovo. Perché i venti soffiano dove vogliono e quando vogliono. E come rinvigorisce fermarsi a riguardare dove il vento ha soffiato.
Maggio. Come da programma, sto per spiegare ai miei studenti di seconda media come si scrive una lettera. Ma una lettera, nel 2017, chi la scrive? Forse (forse) qualche mail. Ma una lettera scritta a mano, chi? A quale adulto verrebbe in mente? Figuriamoci a quale ragazzo.
Eppure io adoro scrivere lettere. E non mi definirei un brontosauro della comunicazione: non disdegno mail né whatsapp, ne faccio anzi un uso regolarissimo, molto più intensivo che di altri mezzi. Ma adoro scrivere lettere a mano, adoro amare l’altro nella concretezza della carta che scelgo per lui, del colore della busta, del tratto della penna. E adoro farmi riconoscere fin dall’intestazione per la grafia che mi svela, farmi conoscere dall’altro fin nella curva ampia della mia g e nell’inclinazione regolare delle lettere.
Ed ecco allora un’idea semplicissima, un felice baleno: entro in classe e chiedo se qualcuno può costruire una cassetta delle lettere per il giorno successivo. Risposta immediata e giovedì, alla terza ora, eccola: sulla cattedra campeggia, con tanto di lucchetto, una splendida cassetta in legno, accuratamente verniciata di un bel rosso scarlatto. Stupita dalle tante ore di lavoro che quella laccatura lascia supporre e dagli occhi tesi come finestre spalancate, annuncio che da quel momento avrebbero potuto imbucare le loro lettere indirizzate a compagni o professori; fino al termine della scuola, il giovedì alla terza ora la cassetta sarebbe stata aperta e io avrei distribuito le buste ai vari destinatari. “Ma lei le leggerà, prof?” “No. Leggerò solo quelle eventualmente indirizzate a me”.
Dopo una settimana, sto per varcare la soglia della seconda media e, tutti in piedi: “Oggi è giovedì!”, indicando la cassetta delle lettere al centro della cattedra. La apro e il numero è tale da non riuscire a tenerle tutte fra le mani. Giro fra i banchi, fra i menti in su e gli occhi tutti attesa, e consegno busta dopo busta. Sorpresa, incredula gioia, delusione per non essere stati scelti. Diversi, infatti, non ricevono lettere il primo giovedì, ma uno di loro, quello che lo scorso anno era lo scrigno più chiuso, più resistente, più ostinatamente ostile, trasforma la ferita in un’apertura senza fine: me ne accorgo il giovedì successivo, quando tra le buste ne trovo una indirizzata all’intera classe. Lui, che non aveva ricevuto nemmeno un bigliettino, ha scritto una lettera a tutti. A me il compito di dar voce a quella piena di gratitudine per compagni e professori a cui sente di dovere il proprio cambiamento, a me il compito di pronunciare una richiesta semplice di perdono per le ferite inferte e, infine, un saluto autoironico proprio su quel punto che lo scorso anno era occasione di rabbia e lacrime. Anche questa volta ci sono lacrime, ma tra gli applausi della classe che esplode di commozione per festeggiare il loro amico. Inutile dire che il giovedì successivo è stato il destinatario più gettonato.
In venti giorni di andirivieni di messaggi, di buste sempre più personalizzate (è comparso di tutto: monete, orecchini, sabbia, sassolini), e sempre più numerose!, neanche un insulto, un’irrisione. Ma tante, tantissime parole di bellezza, di amicizia, di sollievo, di perdono. Fino all’ultimo giorno di scuola, proprio un giovedì in cui apro la cassetta per l’ultima volta: “Prof, la teniamo anche il prossimo anno?”. Chiedo loro di convincermi spiegandomi cosa è fiorito nell’esperienza del mese trascorso. E la prima grande parola è “attesa”, il gusto dell’attesa: “Ti chiedi se l’altro ha letto la lettera, se ti risponderà, quando, come”. E poi il momento della consegna: “È bellissimo, prof, quando passa tra i banchi, perché ti chiedi se qualcuno ha pensato proprio a te. E poi magari pensi che arrivi una lettera da una persona e invece arriva inaspettatamente da un’altra”.
E dell’esperienza dello scrivere lettere? “Io parlo continuamente con le mie amiche, di persona, su whatsapp… parlo, parlo, parlo, parlo al punto che non so neanche cosa dico, non me lo ricordo! Invece, quando scrivo una lettera, do più peso alle parole. Le scelgo, una per una”. “In fondo, siamo diventati più amici perché ci siamo mostrati davvero”. Ecco, tutto questo vorrei che si salvasse. Struggersi per un volto, attendere di essere scelto e sorpreso, cercare quella parola che, sola, svela me a me stesso e all’altro, trasformare la ferita in segno d’amore; incontrarsi veramente, come afferma il genio del teatro, Jerzy Grotowski, “Superare le frontiere tra me e te: arrivare ad incontrarti per non perderti più tra la folla, né tra le parole, né tra le dichiarazioni, né tra idee graziosamente precisate, rinunciare alla paura ed alla vergogna alle quali mi costringono i tuoi occhi appena gli sono accessibile ‘tutto intiero’. Non nascondermi più, essere quello che sono. Almeno qualche minuto, dieci minuti, venti minuti, un’ora. Trovare un luogo dove tale essere in comune sia possibile…”. E tutto può essere questo luogo: anche un’aula con una semplice cassetta delle lettere.