Come dunque procedere? Ritengo che la soluzione del rebus “ridurre un anno/migliorare la qualità degli studi” si possa trovare in un principio di buon senso (il tempo si guadagna innanzi tutto non perdendolo: quanto più si razionalizzano la vita della scuola e le fasi di apprendimento, tanto maggiore sarà l’efficacia) e sfogliando quattro parole chiave: essenzialità, buona comunicazione, tutorato, valutazione. Insomma “un’altra scuola” — o almeno un anticipo di essa — rispetto a quella consueta.
1) La prima condizione riguarda la essenzializzazione dei contenuti scolastici rispetto alla tendenza enciclopedizzante che è dilatata a dismisura negli ultimi decenni. Sono contrario all’idea a scuola si debba solo “apprendere ad apprendere” e sono fermamente convinto che i contenuti siano importanti e che senza contenuti risulta fallimentare anche il perseguimento della competenza. Ma i saperi vanno ricondotti ai nuclei concettuali essenziali e veramente generativi senza le ridondanze proprie della nostra tradizione retorica. Molti dati che un tempo erano indispensabili oggi sono facilmente accessibili in rete. Inutile sovraccaricare la memoria. Meglio se si esercita la capacità di concettualizzazione e di trasferibilità della conoscenza.
2) La seconda esigenza è strettamente connessa all’impiego di modalità di comunicazione più efficaci. Nessuno può negare il valore di una buona trattazione ex cathedra; il guaio è che questa modalità didattica è spesso l’unica ad essere praticata e non sempre con la necessaria efficacia. Oggi gli studenti hanno accesso a una tale quantità di comunicazioni rispetto alle quali non possiamo fingere che tutto sia fermo a 40-50 anni orsono. Non mi riferisco solo alla necessità di valorizzare le esercitazioni personali e cooperative, l’impiego delle tecnologie in quanto strumenti che consentono di ampliare gli orizzonti conoscitivi, la valorizzazione delle esperienze personali, eccetera. Penso più banalmente anche alla necessità di migliorare la capacità comunicativo-didattica dei docenti allo scopo di assicurare presentazioni chiare degli argomenti, motivanti sul piano delle argomentazioni, interrogative più che erogatrici di certezze. Se si migliorano le qualità comunicative, si può guadagnare una bella fetta di tempo.
3) Occorre pensare ad attività di tutorato personalizzato. Come tutti sappiamo l’alunno medio non esiste, esistono tanti studenti-persona con le loro caratteristiche, i loro desideri, le loro propensioni, i loro livelli di aspirazione, le loro differenti capacità e anche con il loro proprio modo di apprendere. In questo caso dobbiamo “perdere tempo” per guadagnarlo. Occorre dedicare tempo per capire come gli studenti “hanno (o non hanno) capito”, per aiutarli nella costruzione del loro personale ragionamento, per orientarli verso l’espansione delle loro conoscenze, per incoraggiarli ad affrontare ostacoli complessi, per disegnare — in una parola — il loro percorso di apprendimento.
Senza la persona che li fa propri e li interiorizza i contenuti non servono a niente e le competenze restano una pia illusione. Tutti sappiamo benissimo che esiste una insormontabile differenza tra “memorizzare”, “ripetere” e “padroneggiare” e “trasferire” una nozione, un concetto, un’esperienza. L’opera di tutorato non è soltanto l’esito di una buona relazione intersoggettiva: è un’azione molto più impegnativa che si configura — per dirla in modo ormai desueto — come quella di un “maestro” che intraprende con il “discepolo” un’avventura intellettuale.
Tutto questo rientra — usando un’espressione che ricorre oggi con grande frequenza, ma anche con una certa approssimazione — nelle pratiche della “personalizzazione”. Non basta però riempire i discorsi con questa parola perché essa si avveri nella realtà scolastica quotidiana. Occorre predisporre piani operativi e tesaurizzare tutte le possibili buone pratiche che ne scaturiscono. Le scuole sperimentali potrebbero costituire degli ottimi punti di riferimento per distribuire sul territorio le esperienze messe in campo. Soltanto vedendo “come si fa”, si creano le condizioni per generalizzare i cambiamenti.
Se continuiamo a immaginare in modo immodificabile, ad esempio, il rapporto docente/classe/disciplina insegnata, l’organizzazione degli orari, l’impermeabilità delle classi, la personalizzazione farà pochissima strada e, per restare al nostro caso, la riduzione dei corsi secondari da 5 a 4 anni sarà un formidabile flop con l’inevitabile impoverimento della preparazione degli studenti (come si dice, un anno perso).
4) Infine occorrerà procedere al costante monitoraggio e valutazione della sperimentazione secondo protocolli che considerino lo studente non solo come un soggetto che apprende, ma una persona che attraverso lo studio costruisce la propria identità personale. Insomma una valutazione nella quale abbiano parte anche le non cognitive skills come, ad esempio, la perseveranza nello studio, la capacità di cooperare con gli altri, una disposizione positiva verso il futuro, un atteggiamento costruttivo rispetto alla strumentazione tecnologica, senza tuttavia restarne subalterno.
Le esperienze potenzialmente innovative legate alla sperimentazione del “liceo breve” potrebbero prefigurare un nuovo modello scolastico nel quale la sostanza irrinunciabile della scuola quale luogo della trasmissione culturale si veste di una fisionomia didattica e comunicativa più aderente ai mutamenti in corso e, dunque, più facilmente accessibile ai giovani.
Non sono soltanto gli insuccessi delle riforme Berlinguer e Moratti a consigliare la non praticabilità di qualsiasi piano di riforma generale che cali dal ministero. La complessità del nostro tempo e la varietà della realtà scolastica suggeriscono di puntare su cambiamenti generati dal basso. Questo vale anche per l’eventuale decisione di concludere l’istruzione secondaria al 18esimo anno.
(2 – fine)