Con la circolare Inps n. 115 del 19 luglio 2017 sono state impartite le indicazioni operative per l’estensione dell’indennità di disoccupazione (Dis-Coll) anche agli assegnisti di ricerca ed ai dottorandi di ricerca con borsa il cui contratto termini dopo il 30 giugno 2017. L’estensione di tale beneficio, di natura assistenziale, anche alla platea dei cosiddetti “precari della conoscenza” (quali sarebbero appunto assegnisti e dottorandi) è stata resa possibile a seguito dell’approvazione a maggio scorso da parte del Senato della Repubblica, a larga maggioranza, della legge sul lavoro autonomo non imprenditoriale, entrata in vigore il 1° luglio 2017. Con questo voto la Dis-Coll, l’indennità di disoccupazione, introdotta dal d.lgs. n. 22/2015 e rivolta ai collaboratori coordinati e continuativi, iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell’Inps, è diventata strutturale anche per le categorie predette. Fin qui nessuno avrebbe da ridire, apparentemente, perché nessuno intende togliere ma anzi aggiungere e implementare tutele al lavoro di tutti e di ciascuno.



Già, al lavoro. Siamo sicuri, però, che il dottorato di ricerca sia considerato come prestazione di lavoro e quindi assoggettabile dal punto di vista del regime giuridico e delle tutele ad un impiego a tutti gli effetti? 

Il dottorato di ricerca era stato introdotto nel nostro ordinamento quale terzo e più alto livello di formazione previsto nell’ordinamento accademico, al quale si accede mediante selezione concorsuale per titoli ed esami. Ha durata almeno triennale e si propone di fornire le competenze necessarie per esercitare presso università, enti pubblici e soggetti privati, attività di ricerca considerata di alto livello dalla comunità accademica nazionale e internazionale. L’obiettivo primario del dottorato sarebbe quello di far acquisire un’autonoma capacità di ricerca scientifica attraverso la quale esprimere creatività e rigore metodologico elaborando prodotti e processi innovativi applicabili in ambito pubblico e privato. 



A ben vedere quindi, non si tratta di un posto di lavoro bensì di un’occasione di alta formazione post lauream, ancorché sia prevista per una parte dei dottorandi l’attribuzione di una borsa. Nel nostro Paese quest’ultima è pari a due terzi di quella spagnola o tedesca e meno della metà di quello dei Paesi nordeuropei, salvo l’autonoma determinazione in aumento deliberata da ciascun ateneo nell’esercizio delle proprie prerogative di autonomia. Questa autonomia è stata sfruttata a dire la verità in pochi casi in Italia. L’ultimo risale allo scorso anno quando all’Università Statale di Milano è stato innalzato l’importo a 1.218 euro (ovvero il 20 per cento in più di quanto previsto a livello nazionale sulla base di statuizioni ministeriali, 1.016 euro).



L’argomentazione che ha portato ad estendere la Dis-Coll anche ai dottorandi ha fatto leva sul fatto che i dottorandi devono essere iscritti alla gestione separata dell’Inps e per questo versano nel triennio contributi previdenziali assimilabili a quelli da lavoro dipendente. Tuttavia, l’iscrizione alla gestione separata è una soluzione tecnica valida soltanto ai fini pensionistici, dalla quale risulta alquanto forzato evincere l’assimilazione tra dottorato e attività lavorativa. Peraltro, l’introduzione della Dis-Coll ha comportato un aumento dell’aliquota contributiva per tutti i dottorandi dello 0,51 per cento, che contribuirà ulteriormente ad erodere l’importo della borsa. Quest’ultima si configura comunque come una borsa di studio, esente da imposizione fiscale, il che consente peraltro di contenerne il costo per gli atenei ai soli due terzi dei contributi previdenziali. Se, invece, la borsa diventasse reddito da lavoro, l’intero sistema andrebbe rivisitato altrimenti il costo da lavoro dipendente, a parità d’importo, diventerebbe alquanto insostenibile.

Se dunque il dottorato non è stato concepito, né tuttora si configura quale attività lavorativa, a quale pro prevederne sottoposizione alle medesime regole inerenti l’attività lavorativa? È improprio ed anzi fuorviante parlare di precariato e disoccupazione nel dottorato di ricerca, semplicemente perché trattandosi di un percorso di formazione, esattamente come il percorso di studio all’università, non da diritto ad alcun posto di lavoro inteso in senso tradizionale, ma fornisce un titolo di studio che abilita alla formazione e alla ricerca sia in ambito pubblico sia privato. Per questo, il dottorato di ricerca dev’essere un’esperienza altamente qualificata di investimento e di formazione del capitale umano, indispensabile per accrescere le proprie credenziali, con ricadute in termini di premialità occupazionale.

Non per questo è da sottovalutare la condizione di inattività che si materializza per molti dottorandi al termine del percorso formativo, ma le risposte dovrebbero essere trovate evitando il ricorso a misure assistenziali pubbliche, che assolvono unicamente ad una funzione di ammortizzatore sociale e che risultano dall’estensione delle tutele concepite in un contesto e su presupposti completamente differenti. In un settore così complesso e di frontiera come quella della ricerca, dove il talento, la competenza, la responsabilità e la libertà di mettere in gioco se stessi e le proprie idee sono essenziali, una misura come quella adottata stride ancora di più e rappresenta una contraddizione in termini all’interno del settore stesso.

Più in generale, la progressiva sindacalizzazione del dottorato di ricerca a cui si assiste grazie all’estensione della Dis-Coll, sebbene permetta nell’immediato un sollievo apparente in termini economico-finanziari ai dottorandi inattivi, avrà effetti altamente distorsivi nel medio e lungo periodo sul complesso del sistema universitario in quanto concorrerà ad alterare nella sostanza la vocazione altamente formativa del dottorato. Il percorso dottorale, trasformato nell’ennesima categoria destinataria di misure di assistenzialismo e welfare pubblico, potrebbe essere così ridotto ad una categoria di precariato qualunque. Tale provvedimento, dai caratteri squisitamente assistenziali, potrebbe compromettere l’espressione della potenzialità del dottorato quale investimento in capitale umano.

In un’ottica alternativa il dottorato di ricerca dev’essere una risorsa essenziale e rappresentare un valore aggiunto determinante per il rilancio, non solo del sistema universitario, ma anche del Paese. Come, infatti, ha ribadito anche il rapporto Ocse Education at a glance 2013, “i dottorati di ricerca giocano un ruolo cruciale nel guidare l’innovazione e la crescita economica (…)”. Oggi purtroppo il dottorato in Italia stenta ancora ad esprimere compiutamente tutte le proprie potenzialità in termini di attrattività e di capacità di innovare attraverso la ricerca. L’attuale difficoltà strutturale del sistema universitario deriva da interventi normativi in materia universitaria, succedutisi negli anni, guidati quasi esclusivamente dalla necessità di razionalizzazione economica ed organizzativa con i tagli ai bilanci universitari e i limiti imposti al turnover del personale in un quadro in cui il nostro Paese è tra gli ultimi per investimenti nel settore della ricerca e per rapporto tra dottorandi e numero complessivo di abitanti. 

A fronte di tali criticità per quanto concerne l’alta formazione e la ricerca, la mission specifica del dottorato di ricerca ha dovuto misurarsi anche con un problema di carattere occupazionale: il mercato del lavoro nazionale, infatti, non è in grado di valorizzare il percorso formativo e il potenziale professionale dei dottori sia per l’insegnamento e la ricerca in ambito accademico, sia per le attività all’interno delle imprese, dove il titolo di dottorato tuttora stenta sostanzialmente ad essere riconosciuto. Non si tratta appena d’investire più risorse finanziarie, aspetto quanto mai urgente, quanto anche di promuovere una nuova cultura nel Paese, in grado di favorire il riconoscimento del valore che qualifica il lavoro di ricerca. Il sistema universitario è di fronte ad un cambiamento d’epoca che richiede l’abbandono di logiche ispirate alla sindacalizzazione e all’assistenzialismo pubblico, a favore invece di inversioni di rotta radicali a tutti i livelli, che interpellino e chiamino in causa la responsabilità e la libertà di tutti gli attori coinvolti.