L’ultima edizione delle prove Invalsi ha probabilmente segnato una svolta. Percentuali altissime di partecipazione, cheating in diminuzione sono segnali di accettazione da parte delle scuole. Del resto la crisi del 2015 che aveva fatto precipitare la percentuale di partecipazione era temporalmente legata alle sommosse contro la Buona Scuola, anche se le astensioni più clamorose — tali da rendere i dati non significativi — si erano registrate al Sud. Probabilmente la Buona Scuola era stata il pretesto per manifestare una tradizionale insofferenza per la valutazione. Oggi sembrano abbozzare anche settori significativi della sinistra che si è sempre dimostrata estranea, se non ostile, a partire dai suoi accademici fino alle organizzazioni sindacali più di base. 



Piuttosto oggi il rischio sembra quello di un assorbimento indolore nel grande ventre molle della scuola. I rapporti di autovalutazione (Rav) che le scuole debbono dal 2015 predisporre e pubblicare prevedono una parte significativa rispetto agli esiti fra cui quelli delle prove Invalsi occupano un posto assicurato anche se parziale (1 su 4) e le azioni di miglioramento che debbono essere predisposte sono obbligatoriamente incentrate sugli esiti stessi. I Rav debbono essere pubblicati (con quale evidenza? con quale pubblicizzazione?) ma fino ad ora le scuole sono state libere di “censurare” almeno in parte i risultati delle prove. 



Le visite dei nuclei esterni di valutazione potrebbero costituire una forma di controllo anche di eventuali cancellazioni, sia agli occhi dell’utenza sia degli stessi interni alla scuola di risultati negativi, ma fin qui faticano a decollare. Basti dire che per tutto il 2017 si svolgerà solo una piccola sessione di visite in autunno, a causa della difficoltà di impegnare gli ispettori che debbono obbligatoriamente presiedere il terzetto di visitatori (evidentemente l’amministrazione non ha ancora accettato la centralità di questo loro impegno). E non sarebbe serio nascondersi che anche la preparazione dei valutatori quanto a lettura  dei risultati delle prove richiederà significativi perfezionamenti. 



Ma il problema principale pare essere che non c’è grande movimento e informazione intorno ai dati sugli effettivi apprendimenti degli studenti in settori cruciali, anche se non esaustivi, delle loro formazione: i genitori sembrano ignorare o sottovalutare, così come spesso le scuole. Non è solo un problema del sistema scolastico: se, per ragioni storiche, culturali o anche di ricaduta economica, i cittadini non attribuiscono un’importanza cruciale all’istruzione per il futuro dei figli, è chiaro che non si precipiteranno a consultare il Rav della loro scuola.

Comunque i dati si accumulano. Quelli del campione di scuole e di classi sulla base dei quali — va ricordato — vengono condotte le analisi successivamente presentate, probabilmente lo sono a livello tale da permettere inferenze attendibili.

I dati sono peraltro disponibili, per chi voglia farne oggetto di analisi, sul sito Invalsi sotto la voce Area Dati Invalsi-Servizio statistico.

Invalsi inoltre presenta nel suo sito una sezione Working Paper nel quale a partire dal 2010 sono state pubblicati in italiano o in inglese 31 paper su particolari aspetti delle prove italiane ed anche internazionali (Pirls, Pisa). A titolo di esempio vi si possono trovare riflessioni sui top performers, sul rapporto fra apprendimenti e frequenza della scuola pre-primaria, composizione delle classi e mobilità degli insegnanti e molto altro. 

Un’estensione di questo tipo di ricerche e soprattutto una loro diffusa conoscenza potrebbe servire ai decisori politici a livello nazionale e regionale nonché ai dirigenti delle scuole ed ai loro organi di governo, per quanto concerne le relative competenze. Sarebbe ingenuo pensare che in altri paesi le decisioni nel merito del sistema scolastico vengano prese sulla base solo degli esiti delle ricerche scientifiche. Il peso dei diversi gruppi di interesse o anche degli orientamenti non necessariamente razionali e motivati dell’opinione pubblica si fa sentire dappertutto. Tuttavia in molti paesi europei le ricerche esistono, vengono presentate, anche se magari vengono accantonate o non prese nella giusta considerazione. In Italia semplicemente sembrano non esistere e sembra che nessuno ne senta la mancanza.

Un esempio è la questione del tempo pieno. Tutti ricordano che agli inizi degli anni duemila si è svolta un’aspra tenzone fra i sostenitori del maestro unico o prevalente e quelli del tempo pieno. 17 anni dopo mancano dati precisi sull’estensione relativa di tempo pieno, modulo o altro e l’impressione è che la situazione sia molto complessa ed articolata sul territorio nazionale. Soprattutto sembra che il problema non stia più a cuore a nessuno. 

Tuttavia la banca dati Invalsi potrebbe essere utile in due sensi. Anzitutto per scattare un’istantanea della situazione attuale dell’offerta formativa nelle sue diverse tipologie, visto che si tratta di una delle informazioni che le scuole devono caricare nel Questionario Scuola. Ma soprattutto sarebbe interessante sapere se esistono differenze ed in che senso fra i livelli di apprendimento registrati dalle prove ed il tipo di corso frequentato dagli allievi, naturalmente depurando i dati dalle altre variabili. Non che, soprattutto a livello della primaria, l’espressione linguistica e le competenze matematiche siano gli unici esiti importanti, perché le competenze trasversali lo sono forse altrettanto. Ma è ormai acclarato che si tratta di indicatori attendibili dei futuri successi scolastici e professionali.

Il problema dell’equità sta a cuore in modo particolare a tutti i ricercatori Ocse ed a quelli italiani, si direbbe anche più dei livelli assoluti di apprendimento. Lo si è visto anche recentemente quando la notizia — peraltro infondata — della posizione buona del nostro paese in termini di equità in Pisa ha fatto dimenticare ai commentatori anche ministeriali che essere tutti allo stesso livello di ignoranza non è necessariamente un dato positivo. Peraltro fin dai primi Pisa dell’inizio degli anni duemila è evidente che, in questo come in altri casi, è improprio parlare di Italia. Il dato relativamente positivo è dovuto all’equità del Nord ed in parte del Centro: al Sud le differenze fra le classi all’interno delle scuole e fra le scuole sono molto rilevanti. 

Per cercare di uscire da questa situazione possono esistere misure di sistema (controllo sull’effettiva composizione equieterogenea delle classi, misure compensative ma di cui si garantisca l’efficacia). Ma esiste anche un’altra strada, parallela e non alternativa, che punta sui resilienti, cioè sugli studenti che ottengono buoni risultati, pur essendo svantaggiati dalle condizioni socioeconomiche di partenza. Si tratta di una categoria che è stata originariamente presa in considerazione e studiata in Pisa e su cui sono iniziate anche ricerche italiane. Come e perché questi studenti si distaccano dal contesto? e non possono divenire il traino di un miglioramento che parta anche dagli individui?

Terzo ed ultimo fra i tanti temi di approfondimento possibili. La situazione del Sud andrebbe approfondita seriamente. Intanto nelle sue differenze territoriali: cosa rende la Sardegna così costantemente e significativamente il fanalino di coda? Cosa differenzia le regioni dell’asse adriatico, più portate al miglioramento? Ma anche: lasciamo da parte gli esiti chiaramente inattendibili della maturità al Sud sulla quale si è perfino finito di scrivere per sfinimento. Sembra che al Sud non vi siano élites cognitive sia in Pisa che in Invalsi. Eppure giovani volonterosi ed anche dotati si spostano verso le università del Nord o verso l’estero, sia per studiare che per successivamente occupare posizioni significative, non solo nella solita pubblica amministrazione. E’ che non si impegnano nelle prove perché il contesto famigliare e sociale non ne fa intravedere la convenienza personale? Oppure le capacità trasversali di cui son dotati non corrispondono a quelle cognitive testate dalle prove? Si tratta poi di un’élite che si segrega dal contesto lasciando il resto del sistema sociale a bassi livelli di formazione, come in tanti paesi sudamericani?

Un elemento importante sarebbe un cambio nell’orientamento delle cattedre universitarie di pedagogia e didattica ma anche di sociologia dell’educazione. Per il passato la generazione accademica del ’68 sia di ispirazione marxista che cattolica ha manifestato una forte diffidenza e contrarietà verso tutti gli approcci in qualche modo quantitativi ed oggettivanti alla valutazione degli apprendimenti, se non addirittura a qualsiasi forma di valutazione che non fosse quella blanda, qualitativa, dei processi ed a fini esclusivi di miglioramento. L’arrivo di giovani studiosi che a partire dal 2000 hanno iniziato ad arare questo campo incolto in Italia e che nel frattempo non sono emigrati per mancanza di prospettive, a causa appunto dell’orientamento dei loro studi, potrebbe iniziare a creare delle scuole e dei gruppi di giovani orientati a queste ricerche. Non va dimenticato inoltre che è nelle università che si formano i futuri insegnanti, i quali si troveranno poi nelle scuole a confrontarsi necessariamente con il tema della valutazione cui in passato erano stati convinti ad essere estranei, se non ostili. E nelle università le scuole dovrebbero trovare un sostegno scientifico al loro operare. 

Comunque l’Invalsi si muove. Il 17-18 novembre 2017 si terrà a Firenze il seminario “I dati Invalsi: uno strumento per la ricerca” allo scopo di promuovere l’utilizzo dei dati Invalsi nella ricerca scientifica. Nella primavera 2018 è preannunciato un convegno nazionale Invalsi in cui verranno presentati paper di approfondimento sui dati di Pisa e Timss 2015.