Al Meeting di Rimini si impara la sintesi, che è la chiave della cultura, che a sua volta è il fondamento dell’educazione (introduzione alla realtà sulla base di un significato globale). Nello specifico si impara a non scherzare con le rivoluzioni nella storia. Si fa presto, cioè, a dire che le rivoluzioni hanno permesso al genere umano di evolvere, progredire, maturare. Ma è sempre vero? Viva la rivoluzione russa che ha abbattuto lo zarismo e le sue opprimenti contraddizioni, viva la rivoluzione industriale che ha modernizzato il mondo, viva la rivoluzione tecnologica che ci ha reso liberi dai vincoli comunitari rendendoci cittadini del mondo! È vero tutto questo?
No. È allora lecito auspicare, volgendoci indietro, il ritorno del buon tempo andato, inneggiare al ritorno dell’autoritarismo, del protezionismo nel campo dell’economia e dei valori, di un mondo in cui sono assenti le macchine? Nemmeno questa prospettiva è praticabile per una semplice ragione: le rivoluzioni le abbiamo cercate e volute, quelle politiche per debolezza d’animo e quelle tecnologico-industriali per affermare la (legittima) superiorità dell’uomo sulle cose. Poi ce le siamo tenute, le rivoluzioni, e ancora adesso dobbiamo imparare a farci i conti.
È impressionante, al Meeting, trovare delineato il rapporto tra la rivoluzione russa, di cui tratta l’importante mostra sul ’17 (“Il sogno infranto di un mondo mai visto”) e il discorso sull’intelligenza artificiale, oggetto di incontri (“L’uomo e la macchina”, relatori Cristianini e Pacchioni) collegati allo spazio “What? Macchine che imparano”. Si tratta di eventi lontani nel tempo e apparentemente disomogenei, afferenti come sono, l’uno al mondo del governo politico dell’umanità, l’altro del governo della scienza applicata alla vita.
Eppure c’è un nesso. Non a caso i testi scolastici incorniciano i fatti entro la medesima categoria: Rivoluzioni, appunto. Ora, accadde che in Russia un intero popolo finì nella braccia del bolscevismo. Sono fatti noti, ma la mostra del Meeting li chiarisce ulteriormente lasciando poco spazio al caso. L’incapacità della classe politica al potere, prima con lo zarismo, poi con i deboli governi della Duma, favorì, insieme alla crisi della Chiesa ortodossa, statalizzata dai tempi di Pietro il Grande, il travaso del consenso dell’opinione pubblica dal riformismo alla rivoluzione. Non fu un caso, ma un dramma umano documentabile. Naturalmente la Grande Guerra subita dal popolo ci mise lo zampino, ma non ci sono attenuanti per coloro che lasciarono spazio a un’ideologia totalizzante che si conosceva e che con Lenin non aveva, prima del fatidico Ottobre, nascosto il proprio obiettivo. Rifare l’uomo, rendendolo da “comunitario” a “collettivo”. E così un intero popolo si consegnò ad un unico mediatore delle proprie esigenze e dei propri sogni. Il Soviet e poi il Partito unico.
Come in Russia, nella storia del Novecento sono nate tante altre rivoluzioni, di sinistra e di destra, imperniate sul partito unico, unico mediatore tra l’uomo e i suoi desideri. Come sappiamo le ideologie rivoluzionarie sono tramontate e i partiti unici mediatori in gran parte scomparsi, anche se non dappertutto. Frutto del caso? No, come sappiamo. È successo che in Urss e altrove l’uomo si è riappropriato della parte più vera di sé: le proprie domande, e ha voluto, a prezzo di sacrifici e prove di martirio, rinunciare al mediatore unico.
Se passiamo velocemente alla rivoluzione tecnologica notiamo che se cambia lo scenario, non cambiano i problemi. Le macchine che si basano sull’intelligenza artificiale, viene così bene spiegato al Meeting, non sono l’esito dell’evoluzione necessaria, ma sono volute come fenomeni corrispondenti ad un poderoso cambio di paradigma culturale. Fino a 20/30 anni fa i moduli matematici racchiudevano la realtà nelle formule, poi si è capito che le macchine intelligenti (stiamo parlando del nostro cellulare, di Internet, di Amazon, di Google: non di chissà cosa!) possono imparare dagli esempi, cioè dai dati che noi forniamo loro. Una volta poi che hanno appreso a captare dati, vanno avanti per conto loro. Le macchine intelligenti sono appunto intelligenti: ci captano anche quando non vogliamo, basta andare su Internet, comprare un paio di scarpe, fare una ricerca su Wikipedia e si è radiografati.
Anche in questo caso si è verificata una rivoluzione, perché abbiamo fatto fuori i vecchi mediatori: la posta tradizionale, la telefonata col telefono, la scrittura a macchina con le nostre correzioni. È l’intelligenza artificiale, cioè un algoritmo, che è diventato l’unico medium tra noi e i nostri desideri. Ci corregge, ci consiglia, ci orienta nelle scelte. Con la conseguenza che se prima guardavamo con una certo senso di orgoglio le macchine, ora siamo osservati e studiati continuamente da questi nuovi ospiti irrinunciabili della nostra quotidiana esistenza. E forse saremo anche clonati. E se tutto questo non ci soddisfa e ci fa sudare freddo, non c’è che una soluzione che ci liberi ancora una volta dall’inquietudine: ridiventare uomini, non avere paura del dolore che ci procurano le domande più profonde, guardare con simpatia l’umano che c’è in noi. Se c’è qualcuno che si prende cura di noi, non sia per favore una macchina, ma un nostro simile!