I Neet italiani? un dramma le cui responsabilità non possono essere addebitate solo alla scuola: nemmeno il mondo imprenditoriale ha fatto la sua parte. Lo ha detto la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, a ilsussidiario.net prima della sua partecipazione al Meeting di Rimini. Ma la strada per acquisire nuovi skills è tracciata e passa per l’alternanza scuola-lavoro ed eventualmente per un incremento del curricolo degli studenti. Guai ad abbandonare la nostra tradizione umanistica inseguendo le competenze tecnologiche; queste ci vogliono, insieme al problem solving, ma senza abbandonare la prima. I sindacati? “Devono imparare che la scuola non serve a creare posti di lavoro, ma a formare i giovani”.
Ha detto di voler estendere l’Erasmus alle superiori. A parole è facile. Perché?
La dimensione europea è imprescindibile. Lo dico anche per la mia storia personale, sono stata presidente del sindacato europeo. L’Erasmus è un’esperienza formativa che cambia la vita dei giovani. Vuol dire più cultura, più conoscenze, più qualità nella relazione umana e civile, più capacità e adattabilità nel nuovo mondo del lavoro. Nel giro di pochi anni costruiremmo una classe dirigente nuova, italiana ed internazionale.
Oggi l’Erasmus se lo possono permettere solo le famiglie benestanti.
Dobbiamo far sì che sia accessibile a tutti dentro il percorso curricolare.
Chi parte per un Erasmus ha o dovrebbe avere voglia di studiare. Nel frattempo l’Italia ha la percentuale più alta di Neet nell’Ue: nel 2016 erano il 24,3% del totale dei giovani 15-29 anni. Questo dato come la interroga?
In modo molto profondo e molto serio. In Italia abbiamo costruito poco per rispondere a questo dramma. Non solo come sistema di istruzione e di formazione, ma anche come sistema economico nazionale, che poco ha compreso le trasformazioni già in atto e non ha adeguato saperi e competenze al cambiamento costante nel lavoro.
Quindi?
Bisogna intervenire sulla qualità della didattica. E dunque sulla qualità formativa dei docenti. Aggiornamento costante, utilizzo di nuove tecnologie per venire incontro alle condizioni nuove e diversificate degli apprendimenti.
Qual è il suo obiettivo?
Avere una scuola che include non solo quelli che già ce la fanno, ma anche chi rimane indietro, prima che questo avvenga. Servono docenti così preparati da venire incontro a tutti. Altrimenti non ce la facciamo.
Torniamo ai Neet. Formare docenti all’altezza del compito. E poi?
Ripeto, c’è un problema della scuola, ma anche del mondo reale dell’economia, in chi dovrebbe offrire una possibilità formativa ai giovani.
Lei ha detto di volere un rilancio vero dell’alternanza scuola-lavoro (Asl). Entro dicembre farà gli stati generali nazionali dell’alternanza. A quale scopo?
Per chiamare a responsabilità tutti i rappresentanti del mondo delle imprese.
Molti prof si lamentano che l’alternanza sia fatta di esperienze di lavoro finto.
Abbiamo già la carta dei diritti e dei doveri degli studenti. Ho voluto una piattaforma specifica sull’Asl, in cui mettiamo tutte le buone pratiche; ho fatto un accordo con Poletti per avere mille tutor territoriali presi dall’Anpal, che facilitino la costruzione di qualità progettuale tra il responsabile della scuola e i referenti delle aziende.
Ma che cos’è per lei l’alternanza?
L’acquisizione di nuovi skills. Non è apprendistato, è innovazione didattica. E’ immettere skills che appartengono alla cultura lavorativa. Ho anche voluto un “bottoncino rosso” per segnalare anomalie da parte dei giovani e intervenire dove l’Asl non viene fatta secondo le regole.
C’è un rapporto con la tradizione che rende la nostra scuola unica al mondo. Con la Buona Scuola si è voluto innovare, sono stati fatti degli inserti in alcuni casi poco efficaci. Non crede che il sistema sia così stressato da potersi inceppare?
Non possiamo permetterci di smarrire la qualità dei nostri sistemi formativi umanistici. All’inizio, quando sono arrivata al Miur, volevo mollare le deleghe sulla Buona Scuola, poi ho capito che era una partita da giocare. Ora ci sono e vanno attuate. Sono tutte importanti, ma più di tutte lo è quella sulla cultura umanistica. Si sottolinea sempre che da noi scarseggiano le competenze tecnologiche: devono essere coltivate e sviluppate, è vero, ma non intendo privilegiarle a scapito della tradizione, come avviene in altri sistemi come quello americano.
E la parte scientifica?
Va potenziata. Guai a trascurarla.
Magari senza curvature sul problem solving.
No: il problem solving va aggiunto perché è fondamentale.
Cos’ha in mente sulla cultura umanistica?
Dobbiamo rilanciare la conoscenza, la cultura e la pratica dell’italiano. Ho chiesto una mano al professor Luca Serianni e lui mi ha dato la sua disponibilità.
I docenti vogliono più soldi.
Hanno ragione.
Ma vige il dogma dell’uniformità del profilo e delle prestazioni. Si continua a porre mano al nodo dei docenti per via contrattuale e non per via normativa. Ringraziamo i sindacati.
No. Perché la Buona Scuola, che ha elementi di qualità innovativa straordinari, ha subito un fallimento? Perché ha incontrato resistenze, certo, ma questo perché il riformismo deve sempre accompagnarsi nei suoi processi al supporto da parte dei soggetti che lo devono attuare. Se poi mi chiede se ci sono corporativismi, le dico di sì, che ci sono, nella scuola come in tutti mondi della rappresentanza.
Insomma è un problema di consenso.
Governare il cambiamento non significa mai veto ma ricerca degli elementi che uniscono, sulla base degli obiettivi dichiarati.
Dunque è tutto a posto?
No, non lo è. I sindacati devono imparare che la scuola non serve a creare posti di lavoro, ma a formare i giovani.
Però il docente italiano è inamovibile.
L’inamovibilità a fronte dell’incapacità non dev’essere più possibile. Poi si tratterà di vedere come fare. Non voglio discriminazioni, ma reciproca consapevolezza. Lo so, è un tema difficile. Su questo però non mi faccia aggiungere altro.
Quando si riuscirà a gestire in modo ordinato l’assunzione in ruolo del personale docente?
Il problema è drammatico perché abbiamo accumulato storicamente diversi modelli di ingresso. In prospettiva, ciò che darà un taglio netto al passato è il nuovo reclutamento. Chi vuole insegnare deve vincere un concorso, ha diritto ad una formazione ulteriore, è pagato per tre anni ma viene misurato sul campo. E un punto di svolta.
Quanto tempo ci vorrà per smaltire la varietà di modalità di ingresso nella scuola?
2-3 anni.
Il diploma in 4 anni, di cui comincerà una sperimentazione molto prudente, potrebbe sancire una rivoluzione didattica. Che ruolo avrà il Miur?
E’ prudente perché quando si coniugano qualità formativa e flessibilità organizzativa occorre procedere in modo attento, governato, monitorato. Sperimentiamo con cautela per verificare ulteriormente contenuti e tempi degli apprendimenti.
E il curriculum? Non crede che vada ridotto o per lo meno riscritto?
Si si può e si deve innovare anche aumentando i contenuti curricolari. Una rivisitazione complessiva dei cicli ha una sua logica. Dovremo pure arrivare all’obbligo fino a 18 anni, no?
Ne è convinta?
Lo dico perché lo credo fermamente.
In che modo?
Diversificando i percorsi in una pluralità di sbocchi professionali possibili. Ma se vogliamo costruire una vera economia della conoscenza, dobbiamo allargare i numeri di partecipazione all’alta formazione.
Oggi lei parlerà al Meeting di Rimini. Che cosa porta idealmente con sé?
Quello che ha detto il presidente Mattarella nel suo messaggio, parlando del “diritto al lavoro e alla istruzione, che sta alle radici della libertà delle persone e della società. Così, investendo sul futuro, una collettività ritrova fiducia e raddoppia la propria forza”. Lo faccio profondamente mio.