Il professor Abderrauf Znagui, belga di origini marocchine, sposato con quattro figli, presente al Meeting di Rimini ha accettato di raccontarci brevemente la sua esperienza di insegnante di religione islamica a Molembeek, quartiere a ovest di Bruxelles, caratterizzato da una numerosa presenza musulmana e tristemente noto perché da qui sono partiti alcuni terroristi protagonisti degli attentati di Parigi (13 novembre 2015) e di Bruxelles (22 marzo 2016).
Professore, come è nata la sua vocazione di insegnante e in particolare di insegnante di religione islamica?
Provengo da una famiglia di insegnanti, mio nonno era insegnante di religione e mio padre insegnava teologia e lingua araba in un liceo a Tangeri. Ho iniziato a studiare diritto all’Università libera di Bruxelles e alla fine degli studi ho saputo che lo Stato assumeva insegnanti di religione islamica. Naturalmente bisognava fare dei corsi di religione e di lingua francese in un centro culturale islamico a Bruxelles, comprensivi di esami e di un concorso. Il centro islamico dava le prime direttive, un programma che doveva essere seguito e in qualche modo adattato alla situazione di ogni scuola. Lo Stato aveva stabilito una convenzione con il centro islamico perché servivano insegnanti dato che 1980 la legge ha pluralizzato l’insegnamento della religione nella scuola. Prima si insegnavano tutte le principali religioni, tranne quella musulmana. Quindi lo Stato ha deciso di offrire un nuovo servizio. Tutti siamo pagati dallo Stato.
Quale programma di insegnamento di religione islamica è stato concordato tra Stato e comunità islamica?
Insegno nel primo segmento della scuola belga (dai 6 al 12 anni). Il programma riguarda tutto ciò che è elementare: come pregare, fare comprendere alcuni versi del Corano, la morale islamica e la storia dell’islam. Mi avevano chiesto di passare alle superiori ma ho preferito restare nella “primaria” per rispondere ad un bisogno educativo più pregnante in questa fascia di età. Insegno per 24 ore settimanali e ho 18 classi, su due scuole. In Belgio non ci sono nell’ambito della religione classi fisse, perché i ragazzi si distribuiscono tra le varie confessioni, per cui ho anche gruppi di 40 alunni.
L’insegnamento è non solo di cultura islamica, ma anche di morale. Giusto?
Con un gruppo di insegnanti abbiamo proprio messo l’accento sulla morale, che riguarda il comportamento del musulmano nella società, per creare nei giovani un’apertura. Cerchiamo in questo modo di distogliere i più giovani da chi li vuole circuire per farli diventare fanatici. Nel quartiere di Molembeek ci sono persone che creano associazioni culturali senza scopo di lucro che fanno dei corsi serali, paralleli a quelli della scuola pubblica. Molti genitori per un senso di fierezza avviano i loro figli a queste scuole coraniche perché desiderano che i ragazzi imparino la maggior parte dei versetti del Corano.
Ma i genitori non ritengono sufficiente ciò che si impara a scuola?
Noi abbiamo un programma da seguire, non possiamo fare quello che vogliamo. Per di più il nostro è in francese. Nei corsi paralleli si insegna in arabo. Noi li vediamo, questi ragazzi, arrivare a scuola con delle idee fanatiche.
Quali sono sulla base della sua esperienza le domande più vive che i giovani le rivolgono?
Quelli che frequentano le scuole coraniche di cui sopra, riversano su di noi domande urgenti, specie i ragazzini dai 10 anni in su: ci chiedono della morte, di che cosa c’è dopo la morte, della fine del mondo, ma anche di cosa sia la gioia.
Nella sua esperienza di insegnante di religione ha fatto incontri che proseguono anche dopo la scuola?
Sì certo. Nel quartiere continua l’incontro con i ragazzi. Talvolta ho notato dei cambiamenti di aspetto, come portare la barba o vestirsi come nei paesi arabi. Vedendo e parlando con questi giovani e notando che l’odio cominciava a introdursi nel cuore, cercavo di mostrare la positività della società nella quale vivono, sempre servendomi dei testi del Profeta che chiede di vivere insieme. Dio dice in un versetto coranico: ho creato degli uomini e dei popoli affinché vi conosceste reciprocamente.
Per la sua esperienza, si può dire che l’educazione è un rapporto con l’altro?
Sì, posso raccontare di un ragazzo, non mio allievo, ma che conoscevo, incontrato dopo gli attentati di Madrid del 2004, che mi ha detto: ben fatto! E io: perché? La risposta è stata: non mi piacete proprio. E Dio in questo affare non c’entra. E io: ma tu ci credi al giudizio finale? Lui mi ha risposto: sì. Allora gli ho spiegato ciò che il Profeta dice: le vittime verranno davanti a te a chiedere la giustizia di Dio. Lui mi guarda con l’aria di non crederci al racconto. Gli ho detto allora: ma tu credi in me? Sì, mi ha risposto. Allora io: ti giuro, quelli che sono vittime verranno a chiedere giustizia e chi le ha provocate non è un martire. Mi ha guardato disorientato. Allora gli racconto che sul treno c’erano la zia e la cugina di uno dei miei allievi…
Da dove nasce questo odio e contro chi è rivolto?
Quelli che lo provano hanno odio per tutto e per tutti. Gli sciiti, le donne che non portano il velo. Ma tutto è frutto di una ideologia dell’odio. È frutto di una propaganda, insomma, diretta dall’esterno, per quello che ho visto io.
L’educazione è dunque un rischio educativo?
Ah sì, Giussani. Io ho affrontato il rischio, proponendo l’islam come amore, che è al primo posto. Ho cercato di fare questo superando parecchie diffidenze anche dei genitori. Per vivere l’educazione non ho rinunciato alla religione islamica, ma il mio rischio è andare a fondo della mia fede personale.
(Fabrizio Foschi)