Quando nel 1914, alla soglia dei sessant’anni, Freud fu invitato a scrivere un breve articolo per una pubblicazione commemorativa del ginnasio dove aveva brillato come studente, non si fece sfuggire l’occasione di tuffarsi negli anni della sua giovinezza: “dai dodici ai diciotto anni”. Nonostante i decenni che da essa ormai lo separavano, l’appesantimento della vita borghese e le inequivocabili testimonianze riflesse dallo specchio, quegli anni gli erano subito accessibili: il presente sembrava oscurarsi ed ecco riaffiorare i ricordi dagli angoli reconditi della memoria.



La scintilla che dà vita al processo del ricordo è l’emozione complessa provata nei confronti degli antichi maestri. Quei rappresentanti della vita adulta che catalizzavano in modo imperioso gran parte della vita affettiva dei giovani studenti. “Li corteggiavamo — annota Freud — o voltavamo loro le spalle, immaginavamo che provassero simpatie o antipatie probabilmente inesistenti, studiavamo i loro caratteri e formavamo o deformavamo i nostri sul loro modello. Essi suscitavano le nostre rivolte più forti e ci costringevano a una completa sottomissione; spiavamo le loro piccole debolezze ed eravamo orgogliosi dei loro grandi meriti, del loro sapere e della loro giustizia. In fondo li amavamo molto, se appena ce ne davano un motivo” (Psicologia del ginnasiale, 1914).



La loro eredità passava necessariamente per la loro persona: “e per alcuni (perché non ammetterlo?), essa è risultata in tal modo sbarrata per sempre”. Ecco il caso di un’eredità negata, il cui accesso, se non del tutto impossibile, è reso però estremamente difficile dalla presenza di un ostacolo affettivo.

Il tema focalizzato dalla frase del Faust scelta dagli organizzatori dell’edizione 2017 del Meeting per l’amicizia tra i popoli: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo” illumina uno snodo importante della vita psichica di ciascuno, ma esso, a dispetto della forza della frase di Goethe, non è poi così semplice, né immediato. Basterebbe riandare allo schiaffo, in punto di morte, del padre a Zeno nel romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno: una delle domande classiche che gli insegnanti (chissà se in veste di padri) amano rivolgere agli studenti alla maturità. O alle eredità subite passivamente, che tanta parte hanno nelle vicende della psicopatologia individuale, come nella Lettera al padre di Kafka (1919) quando l’autore lamenta appunto di essere stato soverchiato dall’eredità del padre: “questa eredità l’ho amministrata anche troppo bene, senza però che nel mio essere ci siano i necessari contrappesi, come ci sono nel tuo”. Oppure, quando, paragonandosi al nipote Felix, Kafka osserva: “(egli) sta con te relativamente poco, è soggetto anche ad altre influenze, per lui sei semmai un caro insieme di curiosità, da cui scegliere cosa prendere. Per me non sei mai stato un insieme di curiosità, io non potevo scegliere, dovevo prendere tutto in blocco”.



Nella Psicologia del Ginnasiale Freud non ha dubbi nel ricondurre la corrente affettiva che lega e contrappone studenti e insegnanti a quella che unisce e contrappone il figlio al padre: “questi uomini, che pure non furono tutti dei padri, diventarono per noi i sostituti del padre. È perciò che ci sono apparsi così maturi, così irraggiungibilmente adulti, anche se in realtà erano ancora molto giovani”. Un’osservazione, quest’ultima che fa della scuola un laboratorio: un case history della paternità: riuscita o mancata. Non è soltanto perché insegnanti e studenti sono figli a pari titolo: una dimensione che i protagonisti della scuola tendono ad escludere celandola con il velo (fin troppo spesso) della professionalità. Ma perché la paternità è definita dalla trasmissione dell’eredità, sia dal lato di chi trasmette un bene sia dal lato di chi lo riceve. 

La frase del Faust che mette l’eredità in relazione a una pluralità di fonti: padri, non padre, alleggerisce il compito di ciascuno, amplificando all’infinito, anche per il ricevente, il novero degli sportelli ai quali bussare.