È iniziata presso l’Aran, l’agenzia che si occupa dei contratti della pubblica amministrazione, la trattativa per il rinnovo delle situazioni stipendiali del comparto pubblico che comprende anche gli insegnanti.
L’accordo con il defunto governo Renzi prevedeva un aumento di 85 euro che tuttavia rischia di essere vanificato per quei dipendenti che hanno già ottenuto gli 80 euro di Renzi. Il rischio paventato è che si tolga con una mano ciò che si è regalato con l’altra. In questo frangente rispunta la litania sui docenti italiani che, a detta dell’Ocse e della ministra Fedeli, che si adegua, sarebbero i meno pagati d’Europa: nei paesi Ocse i docenti a fine carriera percepiscono mediamente 44.407 euro lordi e in quelli europei 44.204, mentre gli insegnanti italiani viaggiano sui 36mila scarsi. Peggio di noi solo Grecia, Polonia, Ungheria e Slovacchia, che — ultima ruota del carro — sta facendo sforzi per allungare il passo.
Il tema dello stipendio dei docenti è un luogo comune, ormai, fatto di lamenti cui non corrisponde né da parte dei soggetti interessati, né di chi li governa, la volontà di porvi mano seriamente, cioè per via normativa e non contrattuale. I sindacati della scuola, anzitutto, procedono per logica contrattuale nella definizione dell’identità docente, che nella loro ottica ha una valenza uniforme e appiattita su funzioni generalizzate: la funzione docente si esplica in attività di gestione della classe, insegnamento, aggiornamento e partecipazione alle attività collegiali. La Legge 107/15 (“Buona Scuola”) prevedeva un’altra logica successivamente svuotata: il docente è un professionista che collabora alla costruzione di un ambito di istruzione e di educazione specifico, quella scuola in quella particolare situazione; quegli alunni con quei bisogni e il particolare contesto socio-culturale in cui si inseriscono.
In questa direzione è concepito l’organico dell’autonomia, definito come “funzionale alle esigenze didattiche, organizzative e progettuali delle istituzioni scolastiche come emergenti dal piano triennale dell’offerta formativa”.
La chiamata diretta con vincolo triennale di permanenza dell’insegnante sulla cattedra, contestata dai sindacati (e dai dirigenti siciliani), rientra in questa ottica, a scanso dei soliti intralci burocratici: il dirigente scolastico assume su posti resisi effettivamente vacanti i docenti che hanno inviato il loro curriculum vitae e di cui verifica le competenze compatibili con il piano triennale dell’offerta formativa del proprio istituto.
Sarebbe (sarebbe stato) l’inizio sia pur nebuloso di una progressione della carriera del docente, cui non potrebbe non essere collegato un avanzamento stipendiale.
Ma lo scorso 29 dicembre 2016 in sede di incontro governo/sindacati, tra la legge e il contratto ha vinto il contratto: è abolito il vincolo triennale, cioè gli insegnanti potranno ricominciare a frullare a piacimento sui posti disponibili annualmente anche a livello interprovinciale. La stessa intesa prevede che le procedure per la chiamata diretta siano identiche su tutto il territorio nazionale “per garantire trasparenza e imparzialità” (!).
Tutto ciò è da leggere in questi termini: alle modulazioni elefantiache del Miur che aveva trasformato l’assunzione secondo la Buona Scuola in una via crucis (otto fasi e innumerevoli errori), si risponde da parte dei sindacati ribadendo la generalità dell’identità docente che è sempre interscambiabile da Aosta a Taormina.
La chiamata diretta scompare? Sì, no, boh! Quello che è certo è che è ridotta a un modulo da compilare online. E lo stipendio? Ma a chi importa veramente? I primi a non volerne uno diversamente strutturato secondo livelli di professionalità sono gli insegnanti stessi, che si accontentano al più del bonus conferito dal dirigente ai meritevoli. Nell’atto di indirizzo stilato in previsione dei rinnovi di cui sopra si preannuncia infatti la valutazione delle prestazioni individuali e collettive dei docenti in cambio di premi economici. Sarà interessante vedere se tra sindacati e Miur si arriverà ad una piattaforma condivisa. Ma il bonus è una tantum e, tra l’altro, anche questo contestato da quella parte di docenza che non accetta di sottoporsi a valutazione. Comunque sono soldi, ragazzi e anche alle mance non si guarda in bocca!
Una volta il merito era una cosa seria, un testo che ci è caro invitava a favorire i “capaci e meritevoli”. Nel gioco al ribasso in cui siamo precipitati dobbiamo conservare quel minimo di lucidità che ci fa esclamare: accetto tutto, toglietemi la chiamata diretta e anche il bonus, ma non standardizzate la mia (di insegnante adulto) libertà di educare i giovani che incontro.