In questo scorcio di estate torrida al Sud, la scuola italiana con le sue contraddizioni tiene banco. Soltanto da poco è giunta al suo epilogo la vicenda “vaccini”, con la conversione in legge il 28 luglio scorso del decreto Lorenzin la cui attuazione rischia di trasformare le aule scolastiche in terreno di scontro tra obbligo scolastico e attuazione del diritto alla salute.
E che dire di un altro ben noto paradosso strutturale? Confrontando i risultati Invalsi con le votazioni alla maturità, è puntualmente emerso che i risultati dei test Invasi continuano a rappresentare il fanalino di coda nelle regioni del Sud, mentre, sempre al Sud, le votazioni agli esami di maturità risultano sensibilmente più alte rispetto al Nord; addirittura più della metà delle lodi nazionali vengono conferite nelle scuole del meridione. La presidente dell’Invalsi, Anna Maria Ajello, al riguardo ha dichiarato al quotidiano Repubblica del 3 agosto scorso che “al Sud ci sono molte realtà eccellenti. Ma poi, quando si passa ai test standardizzati, il contesto fa la sua parte”.
Insomma, proprio nelle zone del paese in cui c’è più bisogno, risulterebbe ancora difficile coniugare qualità dell’insegnamento ed equità dei risultati. Il nuovo processo di valutazione che sta interessando le scuole italiane, in attuazione della direttiva 36/2016, potrebbe rappresentare un’occasione per attivare percorsi virtuosi in tema di miglioramento dei risultati di apprendimento: i presidi sono stati incaricati dal Miur dell’attuazione di azioni progettuali, organizzative e gestionali mirate sugli obiettivi assegnati. E tra gli obiettivi derivanti dai rapporti di autovalutazione vi è proprio quello di migliorare gli esiti di apprendimento degli alunni.
Si tratta dunque di capire come le scuole possano porre in essere percorsi efficaci di miglioramento anche in contesti socio-culturali difficili. “Per educare un figlio ci vuole un villaggio” ha ricordato Papa Francesco in occasione della giornata della scuola organizzata in Piazza San Pietro a Roma nel 2014. E’ un antico proverbio africano di estrema saggezza ed attualità. In quale villaggio, in quale sistema formativo integrato vivono ragazzi e cittadini di molti contesti nel Sud dell’Italia?
L’indagine 2017 Esde sull’occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa, recentemente pubblicata dalla Commissione europea, rende noto che la percentuale in Italia dei giovani tra i 15 e i 24 anni Neet (cioè gli inoccupati al fuori dai percorsi di formazione) si attesta al 19,9 per cento, record negativo europeo. Le statistiche mostrano un’emergenza socio-economica diffusa e concentrata nelle regioni meridionali del paese, con tanti brillanti cervelli in fuga. Il mito della scuola come ascensore sociale in Italia vacilla fortemente.
Nella compiuta attuazione dell’autonomia scolastica, così come disegnata dalla legge istitutiva 59/1997, le scuole avrebbero potuto fare da apripista culturale per il miglioramento sociale dei territori “a rischio”. Purtroppo, nell’ultimo decennio l’autonomia scolastica è stata travolta dal decentramento amministrativo ed il moltiplicarsi dei compiti burocratici ha allontanato dalla didattica i presidi, obbligati ad occuparsi di questioni attinenti la sicurezza, la rappresentanza in giudizio, le graduatorie, la stipula dei contratti di lavoro, l’organizzazione contabile e via discorrendo. L’autonomia scolastica si è rivelata il classico vaso di coccio stretto tra i vasi di ferro delle autonomie locali. Le scuole, le cui risorse si sono ridotte progressivamente nel tempo a causa della spending review, si muovono con difficoltà nei contesti sociali a rischio, soprattutto in quelli fortemente piagati dalla corruzione, che, come ovvio, blocca e rallenta i processi di miglioramento sociale e culturale (si pensi alle note vicende giudiziarie della formazione professionale e della gestione dei fondi europei in alcune regioni meridionali).
Al di là dei paradossi, una cosa è certa: in una prospettiva di miglioramento culturale, le singole scuole non possono essere lasciate, in sede di valutazione degli esiti, da sole con il cerino in mano. L’attenta lettura dei dati statistici rivela infatti l’esistenza di una forte disuguaglianza, oltre che tra scuole, anche tra sistemi formativi integrati, a discapito della tanto agognata uguaglianza dei punti di partenza prevista dalla Costituzione della Repubblica italiana.
Prima di comparare i risultati ai test Invalsi tra le varie zone del paese, dunque, bisognerebbe considerare, ad esempio, che nella scuola primaria il tempo pieno al Sud non è mai decollato e i bambini al momento si accontentano di sole 27 ore di insegnamento a differenza delle 40 ore destinate agli alunni che fruiscono di questa opportunità nelle diverse scuole del paese, prevalentemente situate al Centro-Nord. In mancanza di investimenti strutturali che coinvolgano l’intero sistema formativo integrato, le scuole dei territori a rischio continuano a rappresentare veri e propri avamposti di frontiera, presìdi di democrazia, in cui le lodevoli iniziative individuali, prive del supporto strutturale, difficilmente si tramutano in stabili buone prassi trainanti nei confronti del territorio.
Il percorso della valutazione delle scuole recentemente intrapreso può certo rappresentare un’opportunità positiva per il miglioramento, a patto però che non ci si limiti a ridurre i processi di valutazione ad un adempimento burocratico di carattere esclusivamente formale, volto unicamente a distribuire incentivi stipendiali ex post. Le buone pratiche internazionali ci indicano le strade da percorrere. Pensiamo a ciò che accade in paesi come la Finlandia, sempre ai primi posti nelle rilevazioni internazionali degli apprendimenti Ocse-Pisa: le rilevazioni nazionali degli apprendimenti vengono effettuate a campione ed i relativi costi non esauriscono le risorse finanziarie disponibili. I dati statistici così rilevati servono ai decisori politici per stabilire gli interventi perequativi da attuare nei territori più poveri del paese. Tutte le scuole vengono seguite stabilmente nei loro percorsi interni di valutazione e miglioramento, dalla figura dell'”advisor”, una sorta di ispettore scolastico, che fa da tramite tra livello centrale e locale, facilitando i processi di rendicontazione sociale.
Prendendo ad esempio le buone pratiche internazionali, tutti gli attori del sistema integrato che contribuiscono all’attuazione dell’offerta formativa andrebbero dunque coinvolti nei processi di valutazione esterna, non essendo sufficiente per una significativa riprogettazione delle azioni di miglioramento sociale e culturale la rilettura in termini di coerenza e significatività delle sole azioni messe in campo dalla singola istituzione scolastica. E, all’interno dell’istituzione scolastica, l’oggetto della valutazione esterna dovrebbe essere rappresentato dall’agire professionale di tutto il personale in servizio e non del solo preside, come invece accade oggi in Italia.
Ben venga quindi il dibattito sui paradossi del sistema scolastico italiano: dovremmo farne utile uso per un ampliamento di prospettiva. Si intravvede all’orizzonte la nuova sfida da raccogliere: uscire dalle ambiguità di un modello centralistico, ingessato nell’ossequio alle procedure, per indicare al territorio locale strade di miglioramento culturale e di equità sociale da percorre assieme, nell’interesse nazionale.