Sapere, dati alla mano, che oggi, nel nostro paese, un giovane su cinque, tra i 15 e i 24 anni, non studia, non ha un lavoro, ma nemmeno lo cerca, è motivo di tristezza e di preoccupazione, ma anche d’ inquietudine, se solo si pensa a quest’altro dato di realtà: il numero dei giovani in questa fascia di età arriva oggi al 9,7% della popolazione totale italiana. 



Per quale incomprensibile ragione, a fronte di una carenza ormai endemica di giovani, possiamo permetterci l’imperdonabile errore di “perderne” il 20%? Uso il verbo “perdere” con una certa esitazione, convinta che nella vita di ciascuna persona mai nulla è completamente perduto, né guadagnato; ma sono altrettanto convinta che siano proprio questi gli anni cruciali per la formazione di un giovane, per identificare e perseguire il proprio progetto di vita, per imparare, per mettere alla prova le proprie potenzialità e stimolare le proprie debolezze.



Il 20% di giovani Neet è un doppio vulnus, sociale e personale ad un tempo. Occorre parlarne e ragionarci, per poi decidere e intervenire, ma è impossibile trovare soluzioni semplici ad un problema complesso. Per esempio, affermare che una delle cause di questa situazione sia il fallimento della scelta della scuola superiore è realtà;  realtà complessa, appunto, che riguarda molti di quel 50% di ragazzi che, nel passaggio al secondo ciclo, scelgono un indirizzo liceale, ma altrettanto riguarda l’altro 50%, che ha scelto di frequentare un istituto tecnico o professionale. 

Il tasso di dispersione scolastica tra il primo e il quinto anno della scuola secondaria di II grado supera ancora abbondantemente il 20% dell’intera popolazione scolastica italiana. Ora, se si identifica nella famiglia che compie la scelta della scuola la maggior responsabile di questo problema, si compie, a mio avviso, un’inutile semplificazione. Altrettanto inutile e semplificatoria ritengo l’ipotesi di costruire dispositivi scolastici esclusivi, affidati ai docenti della scuola secondaria di I grado (o di II grado, come accade per il cosiddetto ri-orientamento) che abbiano lo scopo di dare l’indicazione definitiva ed esclusiva rispetto alla scelta del percorso di istruzione successivo. Di più, mi appare ipotesi illegittima e temibile. 



Illegittima perché è l’articolo 30 della Costituzione ad affidare ai genitori il diritto dovere di mantenere, istruire ed educare il proprio figlio; tutti i genitori, nessuno escluso. Se i genitori hanno scelto per l’istruzione del proprio figlio una delle scuole della Repubblica, sono chiamati a cooperare con questa stessa scuola allo scopo di individuare il percorso più adatto al termine del primo ciclo. Ma la decisione ultima spetta loro; la valorizzazione della libertà e della responsabilità genitoriale voluta dai Costituenti non poteva essere più esplicita. 

Temibile mi appare la proposta di affidare esclusivamente alla scuola e ai suoi docenti l’accompagnamento e l’identificazione delle potenzialità e delle attitudini di ciascun ragazzo per diverse ragioni; sintetizzo qui le più significative. Esiste forse un qualsivoglia test capace di “fotografare” e “sezionare” con sistematicità un quattordicenne, le sue predisposizioni, i suoi interessi, le sue incertezze e dirci con esattezza che cosa è meglio per lui? O non occorrerebbe, invece, un diuturno lavoro educativo in cui, cooperativamente alleate, ciascuna per la propria parte, famiglia e  scuola perseguono lo scopo comune di far crescere quanto meglio possibile il proprio figlio/allievo? (Non è sempre così, so bene, a volte manca l’una o l’altra, qualche volta entrambe; spesso, per contro, sapendole apprezzare, ci sarebbero tutte e due!). 

Altra ragione: quali garanzie di qualità presentano, a sistema, i percorsi di orientamento oggi realizzati nella scuola del primo ciclo (stesso discorso possiamo fare, ahimè per il II ciclo)? Scientificamente provato che la dimensione informativa, per quanto importante, non esaurisce di certo la dimensione orientativa, quanto e come l’azione didattica che avviene nelle scuole va oltre la presentazione dei percorsi possibili e si pone il problema di far emergere, attraverso i suoi strumenti, le peculiarità di ciascun allievo? Come si accompagna ciascun allievo a diventare via via più consapevole di sé, a maturare competenza di giudizio nei confronti delle proprie scelte e delle proprie azioni? Sono acquisite, a sistema, queste avvertenze educative?

E ancora: l’attuale organizzazione della scuola secondaria di II grado è, rispetto all’apprendimento di tipo teorico (l’unico preso in considerazione), a discendere: licei, istituti tecnici, istituti professionali. E’ noto come questa organizzazione sia ormai ritenuta dal mondo produttivo rigida ed anacronistica rispetto ai cambiamenti e alle sfide che ci attendono, in un mondo che richiede un continuo intreccio tra sapere e fare, tra pensiero astratto e creativo, tra cooperazione e imprenditorialità personale.  Da quarant’anni si dice questo, da quarant’anni si triturano tentativi di riforma di questa stessa organizzazione, al massimo passa un riordino, purché non sia sostanziale e non cambi l’esistente. Di fatto, a tutt’oggi, chi è “scolasticamente” bravo va al liceo, chi lo è di meno, al tecnico e al professionale; quando proprio non si sa che fare di un ragazzo resistente all’apprendimento “scolastico” l’ultima spiaggia resta la formazione professionale, che tale è rimasta nell’immaginario collettivo, nonostante la Costituzione parli di IeFp e la punta innovativa del sistema duale lombardo. E’ un problema culturale, si dice giustamente, ma di chi? Delle famiglie o dei professionisti della scuola? Parliamone.