L’avvio della sperimentazione di “liceo breve” (quadriennale) prevista dal decreto approvato nei giorni scorsi dalla ministra Fedeli (100 classi a partire dall’anno scolastico 2018-2019) costituisce un primo passo per ricondurre la conclusione degli studi preuniversitari (non solo licei, ma anche istituti tecnici e professionali) entro il 18esimo anno, così come avviene nella maggior parte dei Paesi europei.
Questo obiettivo ha una lunga storia che merita ricordare per inquadrare l’iniziativa di questi giorni nel giusto contesto. Tra gli anni 60 e 80 tenne banco la proposta dell’anticipo della scolarizzazione al quinto anno di età sostenuta soprattutto dal Partito socialista, ma avversata sia dalla Democrazia cristiana e sia dal Partito comunista, entrambi favorevoli (per ragioni diverse) alla conservazione della struttura triennale dell’allora scuola materna.
Fu poi la volta a fine anni 90 del tentativo del ministro Berlinguer di saldare in un unico ciclo scuola elementare e scuola media con un settennio intermedio tra scuola dell’infanzia e istruzione secondaria. Il piano berlingueriano s’infranse per vari motivi, non ultima l’opposizione dei docenti della scuola media timorosi di essere “elementarizzati”.
Con i progetti del ministro Moratti (2001-2006) si passò a considerare per la prima volta la possibilità di quadriennalizzare il ciclo secondario superiore. Il gruppo di esperti che elaborò il progetto di riforma poi in parte confluito nella legge 53/2003 avanzò la proposta di corsi di studio di quattro anni affiancati dalla creazione di un inedito quinto anno opzionale raccordato con l’università e finalizzato ad agevolarne l’accesso. Questa ipotesi si scontrò con la difesa ad oltranza del liceo quinquennale coltivata da larga parte dell’intellettualità italiana e fatta propria da alcuni settori del centro-destra.
Nel 2012, infine, il ministro Profumo rilanciò il tema, insediando una commissione ad hoc per studiare le varie ipotesi percorribili per raggiungere l’obiettivo dei 18 anni. Un robusto e molto articolato documento finale espresse un unanime parere a favore della soluzione cosiddetta del “liceo breve”. La decisione di questi giorni, dunque, non scaturisce improvvisa, ma è la logica continuazione di una svolta che a partire dal ministero Moratti si è orientata verso l’ipotesi di riduzione di un anno del percorso secondario.
Un ulteriore segnale in tal senso è venuto dalla quadriennalizzazione realizzata qualche anno orsono delle scuole italiane all’estero le cui esperienze, pur maturate in situazioni particolari, possono sicuramente fornire indicazioni utili.
Ricostruito lo sfondo complessivo entro cui si situa l’attuale iniziativa delle 100 classi sperimentali (per un totale di circa 2.500 studenti), bisogna chiedersi a quali condizioni essa può rappresentare un indicatore significativo e non ridursi a un’operazione puramente d’ingegneria organizzativa (compresi i rischi e le criticità connesse, considerate soprattutto dal punto di vista dello studente) o, peggio ancora — come alcuni temono — rappresentare un escamotage per ridurre nel tempo del 20 per cento l’organico dei docenti secondari.
L’interrogativo principale da cui partire perché il “liceo breve” non diventi un “liceo scarso” è questo: se e quanto la riduzione di un anno può incidere sulla qualità della formazione degli studenti? Di conseguenza: quali contromisure si possono prendere per contrastare il possibile rischio di una pura e semplice facilitazione negli studi?
Nessuna persona di buon senso è disposta a pagare il prezzo di una riduzione dei livelli di apprendimento a fronte di futuri risparmi sulla spesa dell’istruzione. E nessuno è interessato alla semplice accelerazione degli studi se essa non è situata entro un contesto che favorisce la responsabilizzazione dei giovani. La questione, sotto il profilo pedagogico, riguarda il rapporto tra tempo e apprendimento, tempo e crescita socializzata, questione di forte impatto perché ogni esperienza educativa si svolge sempre all’intreccio di tempo e spazio.
Se stiamo alle scelte compiute degli ultimi decenni, più evidenti a livello dell’istruzione obbligatoria, ma con significative spinte tendenziali anche in quello secondario superiore, si dovrebbe esprimere qualche fondata preoccupazione sull’accorciamento dell’offerta scolastica e optare per lo status quo.
Infatti dagli anni 70 in poi la via privilegiata è stata quella di accrescere il tempo-scuola nella convinzione che la sua dilatazione migliorasse le condizioni dell’apprendimento e consentisse l’ampliamento dell’offerta formativa. Questa scelta concorse, come è noto, a generalizzare nel ciclo primario il tempo pieno e, associata a una visione enciclopedica dei programmi, a implementare gli orari nella stagione della sperimentazione talvolta un po’ “selvaggia” che, tra anni 70 e 90, ha comunque sensibilmente modificato l’assetto dell’istruzione secondaria prima della legge 53.
Bisognerebbe tuttavia anche chiedersi — sia detto incidentalmente — se l’ampliamento dei tempi scolastici non sia anche dipesa, d’un lato, dalle spinte al potenziamento artificioso degli organici per assorbire ampie quote di diplomati e laureati senza occupazione e, dall’altro, dalle aspettative di tipo assistenziale da parte delle famiglie. Neppure del tutto campata in aria appare la tesi di chi sostiene che la comunità pedagogica italiana — o, per lo meno, parte significativa di essa — si sia bene adattata in più o meno buona fede a dare copertura “scientifica” a una scelta dettata principalmente da esigenze occupazionali e sociali.
La creazione del “liceo breve” si pone ora in controtendenza rispetto a una prassi a lungo coltivata i cui risultati meriterebbero un’attenta e critica riflessione e invita a ripensare la funzione e l’organizzazione dell’istruzione nelle società altamente tecnologizzate in termini più qualitativi che quantitativi. Non sono irrilevanti, a tal riguardo, anche i dati provenienti dalle ricerche internazionali secondo cui la variabile del tempo scolastico, entro certi limiti, non è strettamente associabile alla qualità delle prestazioni.
Una cosa dev’essere molto chiara: non si può pensare di mettere in campo la riduzione da 13 a 12 anni nelle condizioni organizzative e metodologico-didattiche della scuola attuale. Mi pare che questo sia anche il presupposto su cui è basato il decreto Fedeli.
(1 – continua)