Nella mia esperienza la scuola è un luogo di incontro, di ricerca, di risposta alle domande che urgono nel cuore e nella mente; è uno spazio, un tempo, un lavoro (a volte pesante), una trama di relazioni interpersonali, in cui non mancano le soddisfazioni, le gioie del vivere e dell’imparare.
“Vivere significa crescere, ma anche e soprattutto imparare”, ci rammenta Arnould Clausse, studioso francese. È questa un’evidenza che tutti sperimentiamo, soprattutto quando osserviamo i bambini. Ma vale anche nella scuola?
Sì, certamente, ma a condizione che ci siano quei presupposti senza i quali avrebbe ragione il poeta, che con amaro e terribile sarcasmo, fa dire ad una maestrina: “Vengono i bimbi, ma nessuna parola/ troveranno, nessun segno del vero,/ mentiremo. Mentirà il mondo in noi” (Andrea Zanzotto).
Non so se esiste una scuola che consapevolmente si rivolga ai bambini con simili aberranti parole. Spero di no. La scuola quando è autentica, cioè quando è luogo e tempo in cui regna la ragione — mi ha molto colpito il motto di un istituto: “Quando la ragione si fa scuola” — è ambiente di insegnamento ed apprendimento umano, dove nulla si può dare per scontato e mai potrà essere negata la libertà.
Non si può dare nulla per scontato, perché il metodo supremo della conoscenza, a cui tende ogni scuola che si rispetti, è l’avvenimento, l’imprevisto: “Bisogna ridare all’avvenimento la sua dimensione ontologica di nuovo inizio. È l’irruzione del nuovo che rompe gli ingranaggi, che mette in moto un processo” (A. Finkielkraut).
Ecco perché esiste e ricomincia la scuola: per accompagnare bambini, ragazzi, giovani a fare esperienza di questo “avvenimento”, dello “spalancamento” della ragione anche nello studio e mediante lo studio delle diverse materie; quindi per far crescere la persona, cioè per incrementare l’autocoscienza dello scolaro e dello studente.
Non basta, però, non “dare per scontato”. Occorre che la scuola si faccia proposta ragionevole, carica di fascino, tale che la ragione si metta in moto per verificarla; una proposta il cui contenuto, eredità dei padri, è l’ipotesi che è bello e possibile vivere, crescere ed imparare con gusto. La sintesi sta negli indimenticabili versi di Goethe: “Quello che tu erediti dai tuoi padri,/ riguadagnatelo, per possederlo”, oggetto di riflessione nell’ultimo meeting di Rimini.
Senza libertà, però, non c’è verifica, né guadagno, né possesso: esperienza della positività del reale, della bellezza e della verità delle cose. L’eredità da “riguadagnare”, infatti, non è materiale, è culturale e morale. Diventa proprietà solo di chi impegna il più prezioso dei talenti: la libertà. Arricchisce chi la fa sua reinvestendola liberamente. Ce lo ha ripetuto più volte Benedetto XVI: “La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell’umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa”. (Spe salvi)
Pertanto dirigenti, insegnanti, genitori, operatori della scuola, oggi, primo giorno dell’anno scolastico, ai bambini, ai ragazzi, ai giovani, a ciascuno di essi, dovremmo dire, non solo con le parole: “Vieni, entra …! Il tempo, lo spazio, il lavoro, in questa scuola, sono ‘parola’ che indica la strada, segno del vero (cioè di quello che ti corrisponde), volto di adulti senza le maschere della menzogna sul senso del vivere, dello studiare, del giocare e di ogni altra cosa che ti piaccia”.
Dirlo “non solo a parole”, ma con i fatti, con il modo di fare lezione, di organizzare spazi e tempi, ricordando che la ragione spalancata, l’amore alla libertà, la verità e il gusto del vivere, senza i quali non c’è né lavoro né studio, hanno bisogno di testimoni, di persone che sappiano edificare quel “villaggio” di cui parla Papa Francesco come condizione dell’educare e dell’insegnare. In altre parole, occorre che ognuno degli adulti (dirigenti, genitori e docenti) si impegni a fare della scuola una comunità di insegnamento e apprendimento, in cui il verbo da coniugare ogni istante sia cooperare, testimoniando con Pavese che non solo oggi, ma ogni mattina, ricominciare è “l’unica gioia al mondo. È bello vivere perché vivere è cominciare sempre ad ogni istante”.